Scalfari su la Repubblica di oggi cita Papa Francesco: "Non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono esser risolte con interventi del Magistero. In ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate perché le culture sono molto diverse tra loro, sicché perfino il modo di impostare e comprendere i problemi, al di là delle questioni dottrinali definite dal Magistero della Chiesa, non può essere globalizzato ... Le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere, ma non possono assolutamente abbracciare tutte le soluzioni particolari che non si risolvono a livello di una norma".
Francesco passa dalla critica alla "globalizzazione dell'indifferenza" alla critica alla "globalizzazione dell'"in-differenza"; e, qui, è un trattino a fare la differenza. Sottolineo due punti di riflessione:
- in primo luogo, la in-differenza è mancata considerazione-comprensione-valorizzazione-mediazione-liberazione delle infinite differenze che compongono il mosaico del progetto umano nel Creato. Praticare la in-differenza significa collocarsi fuori dalla realtà, in una sorta di irrealtà dominante, significa cercare di omologare, adottando un "pensiero unico". In sostanza, la in-differenza è l'evidenza dell'ottima salute di cui gode, ancora oggi nel mondo globalizzato, l'idea totalitaria;
- in secondo luogo, per superare la "non cultura" della in-differenza è necessario ritornare alla conoscenza e all'Amore delle e per le differenze. Sia la conoscenza che l'Amore si vivono ma, riguardo alla prima, sottolineo l'urgenza di un "pensiero complesso e contestuale" che non può che essere transdisciplinare. In particolare, una formazione soltanto finalizzata alla competizione globalizzata (ed esasperata) non ci aiuta a conoscere le realtà per comprenderle; per inculturare, come dice il Papa, dobbiamo ritrovare le profondità dell'antropologia e della filosofia, materie oggi considerate non strategiche e, invece, fondamentali.
La citazione ripresa da Scalfari coglie nel segno ed è fondamentale per riflettere insieme e per ritornare a condividere il senso della storia comune.
domenica 10 aprile 2016
sabato 9 aprile 2016
Incertezza è una bella parola (Marco Emanuele, Formiche)
Incertezza è una bella parola. Se ci ripensiamo incerti, infatti, ri-scopriamo il mistero della ricerca che è la tensione naturale dell'essere persone umane.
Ricercare è vivere, cercare sempre punti di sintesi, non limitandoci all'analisi. Tale processo, che troppo spesso "imprigioniamo" in ambiti particolari (la ricerca disciplinare), rappresenta l'agire complesso della persona, la ricerca dell'innovazione come ri-creazione di sé, come rottura delle certezze consolidate e come possibilità/potenzialità di abbracciare l'intera conoscenza in noi.
Siamo incerti e non possiamo fermarci a rincorrere l'eterno presente, come accade. Il male, infatti, non è la nostra incertezza ma la sua degenerazione che deriva dal nostro non accogliere la nostra stessa dinamicità, la nostra tensione all'oltre che già ci percorre. In quanto persone umane, siamo tempiterni e globali.
L'incertezza è parte fondamentale della condizione umana nel creato e vive in noi come realtà-in-formazione, mai definitive. Alcuni potrebbero leggere queste parole come una sorta di "condanna" all'eterno movimento ma, a ben guardare, esse vanno lette come il nostro "talento nel divenire", come la nostra capacità di essere al di là della certezza di essere già.
Sia chiaro, l'avere certezze è un dato positivo ma ciò che conta è nutrirle di dubbi, mai "totalizzando" ciò che siamo ma aprendoci al "possibile di noi", non separando ma integrando il "complesso della realtà" nel tempo e nello spazio e ri-congiungendo ciò che è disperso.
Ricercare è vivere, cercare sempre punti di sintesi, non limitandoci all'analisi. Tale processo, che troppo spesso "imprigioniamo" in ambiti particolari (la ricerca disciplinare), rappresenta l'agire complesso della persona, la ricerca dell'innovazione come ri-creazione di sé, come rottura delle certezze consolidate e come possibilità/potenzialità di abbracciare l'intera conoscenza in noi.
Siamo incerti e non possiamo fermarci a rincorrere l'eterno presente, come accade. Il male, infatti, non è la nostra incertezza ma la sua degenerazione che deriva dal nostro non accogliere la nostra stessa dinamicità, la nostra tensione all'oltre che già ci percorre. In quanto persone umane, siamo tempiterni e globali.
L'incertezza è parte fondamentale della condizione umana nel creato e vive in noi come realtà-in-formazione, mai definitive. Alcuni potrebbero leggere queste parole come una sorta di "condanna" all'eterno movimento ma, a ben guardare, esse vanno lette come il nostro "talento nel divenire", come la nostra capacità di essere al di là della certezza di essere già.
Sia chiaro, l'avere certezze è un dato positivo ma ciò che conta è nutrirle di dubbi, mai "totalizzando" ciò che siamo ma aprendoci al "possibile di noi", non separando ma integrando il "complesso della realtà" nel tempo e nello spazio e ri-congiungendo ciò che è disperso.
Chapeau, Francesco (Marco Emanuele, Formiche)
L'essenza dell'Amore è alla base di "Amoris Laetitia".
Comunque la pensiamo, "Amoris Laetitia" è un atto d'Amore. Francesco, lo dicevo in un'altra riflessione, è lo stratega del Vangelo, direi il Papa della realtà. L'Amore è atto, testimonianza, continua immersione in ogni realtà del mondo-della-vita; senza questo, ci sarebbero solo la intellettualizzazione o l'imprigionamento dei sentimenti che, come tali, sono come l'acqua, liberi e liberanti.
Da pensatore indisciplinato (definizione "rubata" a Edgar Morin), sento che porre l'Amore e la Misericordia al centro del nostro agire significa ritrovarci umani e questo è sempre più necessario in un mondo 2.0 che ha fatto del disumano la sua cifra.
In diversi hanno cercato di cogliere il senso di "Amoris Laetitia" ma per farlo ci vogliono anima, profondità di analisi, accoglimento di una radicalità progettuale, capacità di comprendere che Francesco è fuori dagli schemi classici degli intellettuali servi della degenerazione del '900. Bene ha fatto Alberto Melloni su la Repubblica di oggi a togliere la esortazione apostolica del Papa dalla contrapposizione tra conservatori e progressisti ma a collocarla come un qualcosa che, dico io, pone la Chiesa (popolo di Dio) e l'umanità di fronte alla immensa, e naturale, responsabilità per la ri-creazione storica dell'umano nel creato.
Vorrei dire che "Amoris Laetitia", da meditare, è un bellissimo messaggio per i laici, non un monito; noi laici, credenti e non credenti, dobbiamo ri-ascoltare la verità della realtà in noi e, solo così, potremo ritornare a sorridere nella nostra incertezza, ri-abbracciandola. E' nell'Amore, infatti, che le relazioni ritrovano il loro senso, la loro sacralità al di là dei riti e dentro la tempiternità-globalità delle nostre vite.
Chapeau, Francesco, testimone di realtà nell'oltre che già ci percorre.
http://formiche.net/2016/04/09/chapeau-francesco/
Comunque la pensiamo, "Amoris Laetitia" è un atto d'Amore. Francesco, lo dicevo in un'altra riflessione, è lo stratega del Vangelo, direi il Papa della realtà. L'Amore è atto, testimonianza, continua immersione in ogni realtà del mondo-della-vita; senza questo, ci sarebbero solo la intellettualizzazione o l'imprigionamento dei sentimenti che, come tali, sono come l'acqua, liberi e liberanti.
Da pensatore indisciplinato (definizione "rubata" a Edgar Morin), sento che porre l'Amore e la Misericordia al centro del nostro agire significa ritrovarci umani e questo è sempre più necessario in un mondo 2.0 che ha fatto del disumano la sua cifra.
In diversi hanno cercato di cogliere il senso di "Amoris Laetitia" ma per farlo ci vogliono anima, profondità di analisi, accoglimento di una radicalità progettuale, capacità di comprendere che Francesco è fuori dagli schemi classici degli intellettuali servi della degenerazione del '900. Bene ha fatto Alberto Melloni su la Repubblica di oggi a togliere la esortazione apostolica del Papa dalla contrapposizione tra conservatori e progressisti ma a collocarla come un qualcosa che, dico io, pone la Chiesa (popolo di Dio) e l'umanità di fronte alla immensa, e naturale, responsabilità per la ri-creazione storica dell'umano nel creato.
Vorrei dire che "Amoris Laetitia", da meditare, è un bellissimo messaggio per i laici, non un monito; noi laici, credenti e non credenti, dobbiamo ri-ascoltare la verità della realtà in noi e, solo così, potremo ritornare a sorridere nella nostra incertezza, ri-abbracciandola. E' nell'Amore, infatti, che le relazioni ritrovano il loro senso, la loro sacralità al di là dei riti e dentro la tempiternità-globalità delle nostre vite.
Chapeau, Francesco, testimone di realtà nell'oltre che già ci percorre.
http://formiche.net/2016/04/09/chapeau-francesco/
giovedì 7 aprile 2016
Il realismo di ciò che ci sembra impossibile (Marco Emanuele, Formiche)
Ci sembra impossibile, ma sembriamo rassegnati, il disumano trionfante. Altresì ci sembra impossibile, ma sembriamo incapaci di "volontà attiva", il rientrare nella "normalità" del progetto umano. Tutti noi, l'umanità, esistiamo (non viviamo) sospesi tra il (presunto) inevitabile di noi e un divenire che vorremmo ma che non percorriamo.
Ieri ponevo il tema dell'Amore come il tema strategico della nostra condizione umana; è un tema che accoglie in sé le complessità di ogni vita, che ci permette di aprire il nostro sguardo, la nostra ragione e il nostro cuore alla realtà di ciò che siamo, ri-attivando quelle "volontà positive" tanto necessarie alla nostra realizzazione-in-comune. E' su questo punto, in particolare, che l'Amore agisce; la competizione fine a sé stessa, infatti, insiste sulla realizzazione autoreferenziale di ciascuno ed è una realizzazione senza Amore, a-morale, che non ri-crea, anzi fa degenerare, il progetto umano. Competere senza maturare un senso della complessità di noi, di ogni altro DI noi e della realtà è correre senza meta.
La sfida non è tra ottimisti e pessimisti o tra innovatori e conservatori ma è tra realisti e presunti tali. Infatti, abbiamo infinite schiere di analisti che cercano di spiegarci il disumano (si chiami Daesh, terrorismo, "non cultura" tecnocratica o quant'altro) ma pochissimi, soprattutto tra gli intellettuali, che riescano a "fare sintesi", a guardare dentro la realtà per guardare oltre; solo "facendo sintesi", infatti, è possibile fare un passo in avanti, vivendo nel mondo e comprendendone le logiche, senza, necessariamente, diventarne schiavi.
L'Amore, parola che ci sembra impossibile e irreale, è invece la nostra unica possibilità. Nell'Amore c'è tutto: conoscenza, comprensione, mediazione, riconciliazione, riappropriazione, perdono, liberazione, realizzazione. L'Amore è rivoluzionario e potente al punto da essere la "realtà nascosta" che sconvolge, in positivo, le nostre certezze; ri-accogliamolo in noi, ne va della nostra salvezza come umanità, nella consapevolezza che, in questo tempo globalizzato, o ci salviamo tutti insieme o non si salva nessuno.
http://formiche.net/2016/04/08/il-realismo-di-cio-che-ci-sembra-impossibile/
Ieri ponevo il tema dell'Amore come il tema strategico della nostra condizione umana; è un tema che accoglie in sé le complessità di ogni vita, che ci permette di aprire il nostro sguardo, la nostra ragione e il nostro cuore alla realtà di ciò che siamo, ri-attivando quelle "volontà positive" tanto necessarie alla nostra realizzazione-in-comune. E' su questo punto, in particolare, che l'Amore agisce; la competizione fine a sé stessa, infatti, insiste sulla realizzazione autoreferenziale di ciascuno ed è una realizzazione senza Amore, a-morale, che non ri-crea, anzi fa degenerare, il progetto umano. Competere senza maturare un senso della complessità di noi, di ogni altro DI noi e della realtà è correre senza meta.
La sfida non è tra ottimisti e pessimisti o tra innovatori e conservatori ma è tra realisti e presunti tali. Infatti, abbiamo infinite schiere di analisti che cercano di spiegarci il disumano (si chiami Daesh, terrorismo, "non cultura" tecnocratica o quant'altro) ma pochissimi, soprattutto tra gli intellettuali, che riescano a "fare sintesi", a guardare dentro la realtà per guardare oltre; solo "facendo sintesi", infatti, è possibile fare un passo in avanti, vivendo nel mondo e comprendendone le logiche, senza, necessariamente, diventarne schiavi.
L'Amore, parola che ci sembra impossibile e irreale, è invece la nostra unica possibilità. Nell'Amore c'è tutto: conoscenza, comprensione, mediazione, riconciliazione, riappropriazione, perdono, liberazione, realizzazione. L'Amore è rivoluzionario e potente al punto da essere la "realtà nascosta" che sconvolge, in positivo, le nostre certezze; ri-accogliamolo in noi, ne va della nostra salvezza come umanità, nella consapevolezza che, in questo tempo globalizzato, o ci salviamo tutti insieme o non si salva nessuno.
http://formiche.net/2016/04/08/il-realismo-di-cio-che-ci-sembra-impossibile/
Nel mondo, l'Amore (Marco Emanuele, Formiche)
Beate siano le contraddizioni e i dubbi, le nostre complessità, le differenze che fatichiamo a comprendere ma che ci appartengono. Beato sia tutto ciò che ci aiuta a uscire da noi, per ritrovarci pienamente; e si tratta, senza voler essere blasfemo, di una "beatitudine terrena", la ri-scoperta della trascendenza di noi, in noi e in ogni altro DI noi.
L'Amore, che scrivo con la maiuscola a sottolinearne il valore strategico e non limitabile in formalismi umani del tutto dannosi, è l'alimento fondamentale del nostro essere e del nostro convivere. Tutt'altro che in termini romantici, parlare di Amore significa volere, fortissimamente volere, che la "misericordia storica" ritorni a dare un senso alla nostra capacità di mediazione (oggi ridotta a compromesso) dei rapporti di forza e degli interessi particolari (non eliminabili dal palcoscenico della storia) e alla nostra volontà di libertà come liberazione (circolo virtuoso).
L'Amore, dunque, è la cornice che si fa contenuto, visione d'insieme del mosaico meraviglioso della vita-che-evolve; nell'Amore non può esserci condanna o discriminazione ma solo condivisione. Chiunque tenti di guardare all'Amore in termini limitanti (separando ciò che si ritiene sia Amore da ciò che si ritiene non lo sia) è, semplicisticamente, prigioniero di una idea totalitaria.
L'Amore è la forza della sintesi di tempiternità e globalità in ogni istante di ogni vita, in un mondo ricco soltanto di analisi; tornare all'Amore significa rompere le catene della certezza ad ogni costo e, progressivamente, ritornare a bruciarci nel sacro fuoco del progetto umano che è tutto Amore da abbracciare.
http://formiche.net/2016/04/07/nel-mondo-lamore/
L'Amore, che scrivo con la maiuscola a sottolinearne il valore strategico e non limitabile in formalismi umani del tutto dannosi, è l'alimento fondamentale del nostro essere e del nostro convivere. Tutt'altro che in termini romantici, parlare di Amore significa volere, fortissimamente volere, che la "misericordia storica" ritorni a dare un senso alla nostra capacità di mediazione (oggi ridotta a compromesso) dei rapporti di forza e degli interessi particolari (non eliminabili dal palcoscenico della storia) e alla nostra volontà di libertà come liberazione (circolo virtuoso).
L'Amore, dunque, è la cornice che si fa contenuto, visione d'insieme del mosaico meraviglioso della vita-che-evolve; nell'Amore non può esserci condanna o discriminazione ma solo condivisione. Chiunque tenti di guardare all'Amore in termini limitanti (separando ciò che si ritiene sia Amore da ciò che si ritiene non lo sia) è, semplicisticamente, prigioniero di una idea totalitaria.
L'Amore è la forza della sintesi di tempiternità e globalità in ogni istante di ogni vita, in un mondo ricco soltanto di analisi; tornare all'Amore significa rompere le catene della certezza ad ogni costo e, progressivamente, ritornare a bruciarci nel sacro fuoco del progetto umano che è tutto Amore da abbracciare.
http://formiche.net/2016/04/07/nel-mondo-lamore/
mercoledì 6 aprile 2016
Intellettuali, segni dei tempi, complessità (Marco Emanuele, Formiche)
Papa Francesco continua a testimoniare i "segni nei tempi" nei "segni dei tempi". In fondo, è ciò che dovrebbe fare ogni intellettuale, cercatore della verità e ricercatore in essa, non solo comodo consigliere del principe di turno.
Eppure il mondo nel quale ci limitiamo a esistere non ci sta insegnando la necessità di essere, in quanto persone umane, degli "intellettuali globali". Il primo passo è la re-integrazione in noi dei "segni dei tempi", il ri-comprendere in noi la complessità di ciò che siamo, il ri-ascoltare la dinamica verità della realtà.
La complessità deve ritornare a essere la musica per le nostre orecchie, calandoci nelle profondità (luci e ombre) della nostra condizione umana nel creato. In più, dobbiamo maturare insieme un "metodo complesso", per natura transdisciplinare, di analisi dei fenomeni storici; dobbiamo abbandonare la certezza del nostro sguardo limitato e limitante, ri-attivando circuiti virtuosi di conoscenza, al di là dell'informazione indistinta e dominante.
Abbiamo di fronte a noi praterie di "senso possibile" che non percorriamo, impauriti e bisognosi di una sicurezza che nasce dal nostro distacco dalla realtà dei mondi-della-vita. Possiamo dirci liberi se esistiamo nella irrealtà delle nostre convinzioni competitive ? Possiamo dirci liberi se rincorriamo solo le risposte, non ponendoci più le domande fondamentali ? Come possiamo riprenderci la nostra umanità nel terzo millennio globalizzato del disumano trionfante ?
E' venuto il tempo di rinnovati pensieri strategici per un'azione politica capace di illuminare la realtà con visioni progettuali di conoscenza e di convivenza.
http://formiche.net/2016/04/06/intellettuali-segni-dei-tempi-complessita/
Eppure il mondo nel quale ci limitiamo a esistere non ci sta insegnando la necessità di essere, in quanto persone umane, degli "intellettuali globali". Il primo passo è la re-integrazione in noi dei "segni dei tempi", il ri-comprendere in noi la complessità di ciò che siamo, il ri-ascoltare la dinamica verità della realtà.
La complessità deve ritornare a essere la musica per le nostre orecchie, calandoci nelle profondità (luci e ombre) della nostra condizione umana nel creato. In più, dobbiamo maturare insieme un "metodo complesso", per natura transdisciplinare, di analisi dei fenomeni storici; dobbiamo abbandonare la certezza del nostro sguardo limitato e limitante, ri-attivando circuiti virtuosi di conoscenza, al di là dell'informazione indistinta e dominante.
Abbiamo di fronte a noi praterie di "senso possibile" che non percorriamo, impauriti e bisognosi di una sicurezza che nasce dal nostro distacco dalla realtà dei mondi-della-vita. Possiamo dirci liberi se esistiamo nella irrealtà delle nostre convinzioni competitive ? Possiamo dirci liberi se rincorriamo solo le risposte, non ponendoci più le domande fondamentali ? Come possiamo riprenderci la nostra umanità nel terzo millennio globalizzato del disumano trionfante ?
E' venuto il tempo di rinnovati pensieri strategici per un'azione politica capace di illuminare la realtà con visioni progettuali di conoscenza e di convivenza.
http://formiche.net/2016/04/06/intellettuali-segni-dei-tempi-complessita/
giovedì 31 marzo 2016
Papa Francesco, stratega del Vangelo (Marco Emanuele, Formiche)
Nei "segni dei tempi" c'è tutto, basta cercare di capirli. Papa Francesco, gigante di senso nel mondo a-polare e a-politico, passa, nella mia storia, come lo "stratega del Vangelo". Lascio agli storici presenti e che verranno ogni valutazione di carattere scientifico.
Mi piace vedere il Papa raccontare la vita con i gesti, con parole misurate e profonde, semplici frecce scagliate contro il muro di de-generazione che chiamiamo indifferenza (o anche in-differenza, mancata considerazione e valorizzazione delle differenze che compongono il mosaico del progetto umano nel creato). Papa Francesco cammina e dialoga con gli ultimi, nelle periferie esistenziali, per una geopolitica che recuperi il suo senso nell'essere metodo di e per una politica globale. Dal Papa apprendo la bellezza del senso di religiosità, vento della Misericordia che tutti tocca, speriamo migliorandoci (ma qui entra in gioco il principio, storicamente eterno, della responsabilità personale di ciascuno di noi).
Papa Francesco è un Papa progettuale, per una Chiesa che sia tale; alcuni lo dipingono come un antagonista, secondo me sbagliando. Lui incarna il Vangelo che, certo, fa paura, soprattutto a chi non lo vive ma si limita a leggerlo; vivere il Vangelo, infatti, significa vivere da fratelli con i fratelli, creando comunione e comunità, condividendo.
Nel trionfo del disumano, nel rapporto tutto sbilanciato tra libertà e sicurezza, nel "vuoto politico" dominante, Papa Francesco si colloca come l'unico leader sulla scena internazionale. Forse lui rifiuterebbe l'etichetta di leader; in fondo è solo una persona che, ci piaccia o meno, svolge fino in fondo la sua missione.
http://formiche.net/2016/03/31/papa-francesco-stratega-del-vangelo/
Mi piace vedere il Papa raccontare la vita con i gesti, con parole misurate e profonde, semplici frecce scagliate contro il muro di de-generazione che chiamiamo indifferenza (o anche in-differenza, mancata considerazione e valorizzazione delle differenze che compongono il mosaico del progetto umano nel creato). Papa Francesco cammina e dialoga con gli ultimi, nelle periferie esistenziali, per una geopolitica che recuperi il suo senso nell'essere metodo di e per una politica globale. Dal Papa apprendo la bellezza del senso di religiosità, vento della Misericordia che tutti tocca, speriamo migliorandoci (ma qui entra in gioco il principio, storicamente eterno, della responsabilità personale di ciascuno di noi).
Papa Francesco è un Papa progettuale, per una Chiesa che sia tale; alcuni lo dipingono come un antagonista, secondo me sbagliando. Lui incarna il Vangelo che, certo, fa paura, soprattutto a chi non lo vive ma si limita a leggerlo; vivere il Vangelo, infatti, significa vivere da fratelli con i fratelli, creando comunione e comunità, condividendo.
Nel trionfo del disumano, nel rapporto tutto sbilanciato tra libertà e sicurezza, nel "vuoto politico" dominante, Papa Francesco si colloca come l'unico leader sulla scena internazionale. Forse lui rifiuterebbe l'etichetta di leader; in fondo è solo una persona che, ci piaccia o meno, svolge fino in fondo la sua missione.
http://formiche.net/2016/03/31/papa-francesco-stratega-del-vangelo/
Leadership e cultura del "non progetto" (Marco Emanuele, Formiche)
Siamo nel pieno di una esasperata personalizzazione della politica, carente di contenuti e di visioni storiche. Il mondo a-polare toglie progressivamente senso al pensare e all'agire politici, limitandoli a esistere in una fotografia dell' "eterno presente" globalizzato.
Se guardiamo all'Italia, le leadership politiche del terzo millennio in molti casi nascono nel contesto di una democrazia 2.0 e si consolidano soprattutto grazie alla loro capacità di comunicare che, se è necessaria, non può sacrificare la profondità dei contenuti; il messaggio non basta a fare la storia.
Avvertiamo la fragilità dei leader "social" nella dominante cultura del "non progetto"; i "segni dei tempi" non compresi e non meditati rischiano di travolgere le "presunte" leadership, e con esse i cittadini che non conoscono più il senso di cittadinanza e la responsabilità storica per la democrazia.
Non voglio essere pessimista, anzi; penso che sia necessario ripensare il concetto stesso di "leadership" e quello di "classi dirigenti" che, a ben guardare, rappresentano la necessità di una organizzazione sistemica, per quanto adeguata al tempo della "società liquida", dei sistemi-Paese.
E' cambiato il mondo ma non sono cambiate le esigenze profonde, e naturali, delle persone e delle comunità umane; persistono le domande fondamentali e, nel momento in cui ci limitiamo a dare risposte, dovremmo ricominciare a farcele.
http://formiche.net/2016/03/31/leadership-e-cultura-del-non-progetto/
Se guardiamo all'Italia, le leadership politiche del terzo millennio in molti casi nascono nel contesto di una democrazia 2.0 e si consolidano soprattutto grazie alla loro capacità di comunicare che, se è necessaria, non può sacrificare la profondità dei contenuti; il messaggio non basta a fare la storia.
Avvertiamo la fragilità dei leader "social" nella dominante cultura del "non progetto"; i "segni dei tempi" non compresi e non meditati rischiano di travolgere le "presunte" leadership, e con esse i cittadini che non conoscono più il senso di cittadinanza e la responsabilità storica per la democrazia.
Non voglio essere pessimista, anzi; penso che sia necessario ripensare il concetto stesso di "leadership" e quello di "classi dirigenti" che, a ben guardare, rappresentano la necessità di una organizzazione sistemica, per quanto adeguata al tempo della "società liquida", dei sistemi-Paese.
E' cambiato il mondo ma non sono cambiate le esigenze profonde, e naturali, delle persone e delle comunità umane; persistono le domande fondamentali e, nel momento in cui ci limitiamo a dare risposte, dovremmo ricominciare a farcele.
http://formiche.net/2016/03/31/leadership-e-cultura-del-non-progetto/
mercoledì 30 marzo 2016
Bye bye '900 ? (Marco Emanuele, Formiche)
In tanti, volentieri, salutiamo il '900. E' cambiato il mondo, sono cambiati i rapporti di forza, il mondo si è fatto uno e globalizzato e, al contempo, a-polare. Che dire ? E' finito il tempo delle ideologie (qui intendendo la parola in senso deteriore ma non credendo io che la parola sia "naturalmente" negativa) o, semplicemente, si sono sostituite ideologie a ideologie (cos'è la competizione esasperata) ? Non mancano, nel terzo millennio del "niente politico", strategie dominanti, anzi. Esistiamo immersi in quello che definisco "progetto del non progetto"; corriamo, competiamo, orfani delle complessità dei mondi-della-vita che, val bene ricordarlo, sono anche le nostre.
Ciò che manca è un talento della Conoscenza adeguato alla realtà del mondo di oggi, capace di comprendere i "segni dei tempi" e di interpretarli. Ciò che manca, nel comprendere le profondità dei passaggi storici, è la risposta alla domanda "che fare ?"; ed è una domanda tutta politica che chiede una risposta altrettanto politica. Nel "niente politico", il prezzo più alto lo paga la libertà che, per quanto mi riguarda, ha senso solo se è intesa come liberazione; nel mondo globalizzato, infatti, o ci liberiamo insieme o siamo tutti schiavi, anche se siamo convinti di essere liberi e sviluppati.
La nostra libertà, nel terzo millennio, deve cominciare dove comincia quella dell'altro. La libertà globale è un processo circolare, di reciproca costruzione responsabile e progettuale, di condivisione di un "fine" comune, quello della liberazione del progetto dell'intera ed unica umanità nel creato.
La democrazia 2.0, ciò che nega il senso democratico per il quale intere generazioni hanno combattuto e hanno perso la vita, è una "maschera retorica", è fumo negli occhi; dobbiamo ritornare a porre la persona umana (e ogni persona umana) al centro del dibattito pubblico.
Bye bye '900, dunque, se almeno sapessimo dove stiamo andando.
http://formiche.net/2016/03/30/bye-bye-900/
Ciò che manca è un talento della Conoscenza adeguato alla realtà del mondo di oggi, capace di comprendere i "segni dei tempi" e di interpretarli. Ciò che manca, nel comprendere le profondità dei passaggi storici, è la risposta alla domanda "che fare ?"; ed è una domanda tutta politica che chiede una risposta altrettanto politica. Nel "niente politico", il prezzo più alto lo paga la libertà che, per quanto mi riguarda, ha senso solo se è intesa come liberazione; nel mondo globalizzato, infatti, o ci liberiamo insieme o siamo tutti schiavi, anche se siamo convinti di essere liberi e sviluppati.
La nostra libertà, nel terzo millennio, deve cominciare dove comincia quella dell'altro. La libertà globale è un processo circolare, di reciproca costruzione responsabile e progettuale, di condivisione di un "fine" comune, quello della liberazione del progetto dell'intera ed unica umanità nel creato.
La democrazia 2.0, ciò che nega il senso democratico per il quale intere generazioni hanno combattuto e hanno perso la vita, è una "maschera retorica", è fumo negli occhi; dobbiamo ritornare a porre la persona umana (e ogni persona umana) al centro del dibattito pubblico.
Bye bye '900, dunque, se almeno sapessimo dove stiamo andando.
http://formiche.net/2016/03/30/bye-bye-900/
Conoscenza e azione politica (Marco Emanuele, Formiche)
Dobbiamo ri-accogliere la nostra incertezza per ri-trovarci umani. Se alziamo il palcoscenico della storia vediamo crescere l'in-differenza (non accoglimento e non valorizzazione delle differenze del mosaico umano nel creato), la rassegnazione e il disagio: eppure esistiamo nella certezza di noi e delle nostre convinzioni globalizzate, elevate a presunte "verità non discutibili".
E' venuto il tempo di problematizzare le nostre certezze, recuperando il senso globale della Conoscenza e dell'azione politica. Conoscere è immergersi nelle contraddizioni dei mondi-della-vita, re-integrando ciò che è disperso, cercando il conoscibile nel conosciuto, innovando nel rompere gli schemi consolidati; agire politicamente è maturare e consolidare visioni di convivenza, cogliere e accogliere i "segni dei tempi", adattarsi ai cambiamenti generandoli e ri-generandoci in essi.
Conoscere e agire politicamente sono i tratti "profondamente naturali" dell'essere persone umane. Se allarghiamo il nostro sguardo alla realtà, scopriamo che continuamente "tradiamo" la nostra natura, riducendo la Conoscenza a informazione (siamo molto informati ma non Conosciamo) e l'azione politica (mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e valorizzazione/liberazione di ogni progetto umano nel progetto comune e complesso dell' "umanità - bene comune") a semplicistico compromesso competitivo.
Rimettere la persona umana al centro del dibattito pubblico è sempre più necessario e urgente.
http://formiche.net/2016/03/30/conoscenza-e-azione-politica/
E' venuto il tempo di problematizzare le nostre certezze, recuperando il senso globale della Conoscenza e dell'azione politica. Conoscere è immergersi nelle contraddizioni dei mondi-della-vita, re-integrando ciò che è disperso, cercando il conoscibile nel conosciuto, innovando nel rompere gli schemi consolidati; agire politicamente è maturare e consolidare visioni di convivenza, cogliere e accogliere i "segni dei tempi", adattarsi ai cambiamenti generandoli e ri-generandoci in essi.
Conoscere e agire politicamente sono i tratti "profondamente naturali" dell'essere persone umane. Se allarghiamo il nostro sguardo alla realtà, scopriamo che continuamente "tradiamo" la nostra natura, riducendo la Conoscenza a informazione (siamo molto informati ma non Conosciamo) e l'azione politica (mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e valorizzazione/liberazione di ogni progetto umano nel progetto comune e complesso dell' "umanità - bene comune") a semplicistico compromesso competitivo.
Rimettere la persona umana al centro del dibattito pubblico è sempre più necessario e urgente.
http://formiche.net/2016/03/30/conoscenza-e-azione-politica/
martedì 29 marzo 2016
Ritrovare l'incertezza è un segno di civiltà (Marco Emanuele, Formiche)
La complessità della persona umana ci sconvolge e ci sorprende. Grazie ad essa, infatti, veniamo naturalmente trascinati nell'incertezza della nostra condizione umana; l'incertezza ci appartiene e ci rende soggetti-in-ricerca, imperfetti nella tensione "a divenire".
Può apparire stravagante parlare di persona umana nell'epoca del post-umano e del disumano, eppure è necessario. Ho l'impressione che occorra ripensare profondamente ciò che siamo, mondi di relazione, mondi nel mondo. Porre la persona umana, e ogni persona umana, al centro del dibattito pubblico significa "problematizzare" il sistema dominante nel quale siamo immersi, ritrovando un senso globale per la globalizzazione solo tecnocratica e senz'anima politica. Ciò che dovrebbe essere "servizio" alla realizzazione integrale della persona umana (le istituzioni, il mercato, le università) rischia di trasformarsi in un modello solo lineare e incapace di cogliere le infinite sfumature, informalità, transizioni della realtà; si è creato un solco di separazione tra le "élite" e i mondi-della-vita, di fatto annullando quella partecipazione alla storia che ci riguarda in quanto persone-soggetti di responsabilità.
Va da sé che, nella globalizzazione attuale, la mancanza di visioni condivise porta a una sua "non sostenibilità" sul medio-lungo termine e scatena, come vediamo, reazioni incontrollate e incontrollabili e minacce asimmetriche che riusciamo sempre meno a governare. Usiamo la parola "sviluppo" per giustificare un sistema globalizzato che, pur nelle migliori intenzioni, si sta rivelando, nei vari ambiti della convivenza umana, fragile ed "esterno" ai processi storici vitali; esistiamo (non viviamo) come prigionieri in un "eterno presente" che ci fa girare a vuoto nella paura degenerante, sempre più desiderosi di sicurezza e sempre meno attenti all'esigenza fondamentale della libertà come liberazione.
Ritrovare l'incertezza è un segno di civiltà; in essa, infatti, siamo profondamente noi, portatori del bene e del male, ciascuno evidenza storica delle infinite differenze del mosaico umano nel creato, bisognosi e capaci di "progetto umano". La certezza della certezza, caratteristica del nostro "eterno presente", ci lascia soli, illusoriamente auto-referenziali, precari.
http://formiche.net/2016/03/30/ritrovare-lincertezza-e-un-segno-di-civilta/
Può apparire stravagante parlare di persona umana nell'epoca del post-umano e del disumano, eppure è necessario. Ho l'impressione che occorra ripensare profondamente ciò che siamo, mondi di relazione, mondi nel mondo. Porre la persona umana, e ogni persona umana, al centro del dibattito pubblico significa "problematizzare" il sistema dominante nel quale siamo immersi, ritrovando un senso globale per la globalizzazione solo tecnocratica e senz'anima politica. Ciò che dovrebbe essere "servizio" alla realizzazione integrale della persona umana (le istituzioni, il mercato, le università) rischia di trasformarsi in un modello solo lineare e incapace di cogliere le infinite sfumature, informalità, transizioni della realtà; si è creato un solco di separazione tra le "élite" e i mondi-della-vita, di fatto annullando quella partecipazione alla storia che ci riguarda in quanto persone-soggetti di responsabilità.
Va da sé che, nella globalizzazione attuale, la mancanza di visioni condivise porta a una sua "non sostenibilità" sul medio-lungo termine e scatena, come vediamo, reazioni incontrollate e incontrollabili e minacce asimmetriche che riusciamo sempre meno a governare. Usiamo la parola "sviluppo" per giustificare un sistema globalizzato che, pur nelle migliori intenzioni, si sta rivelando, nei vari ambiti della convivenza umana, fragile ed "esterno" ai processi storici vitali; esistiamo (non viviamo) come prigionieri in un "eterno presente" che ci fa girare a vuoto nella paura degenerante, sempre più desiderosi di sicurezza e sempre meno attenti all'esigenza fondamentale della libertà come liberazione.
Ritrovare l'incertezza è un segno di civiltà; in essa, infatti, siamo profondamente noi, portatori del bene e del male, ciascuno evidenza storica delle infinite differenze del mosaico umano nel creato, bisognosi e capaci di "progetto umano". La certezza della certezza, caratteristica del nostro "eterno presente", ci lascia soli, illusoriamente auto-referenziali, precari.
http://formiche.net/2016/03/30/ritrovare-lincertezza-e-un-segno-di-civilta/
lunedì 28 marzo 2016
La "persona umana" al centro (Marco Emanuele, Formiche)
Penso che, nel mondo di oggi, i veri intellettuali siano coloro che hanno un "senso globale" della vita e che relativizzano e contestualizzano; il che significa avere il senso della storia e di ogni storia e ritrovare il senso della storia in ogni storia.
Senza pretendere di portare prove, ma proponendo "sensazioni ragionate", azzardo nel dire che il mondo sembra sempre più popolato da "non persone"; lo sono coloro che non hanno voce (gli ultimi, i dimenticati), ma anche quanti esistono (non vivono) sotto i riflettori accecanti di una globalizzazione solo tecnocratica. Sia gli uni che gli altri sono in qualche modo "oppressi"; i primi da un evidente stato di necessità materiale, gli altri da un qualcosa che viene venduto come libertà ma che in realtà è molto spesso, e semplicisticamente, il frutto discutibile del potentissimo "regno dell'immaginario".
Le "non persone" appartengono a differenti classi sociali, sono trasversali; proprio in ragione del loro essere diventate "maggioranza" dell'umanità, avverto come fondamentale rimettere al centro del dibattito pubblico la "persona umana" e la sua complessità. La maggioranza di "non persone" ci chiama a una nuova responsabilità, nuova nel senso del necessario, e urgente, ritorno alla responsabilità.
La poca fortuna che, nel mondo di oggi, ha il concetto di "persona umana" si spiega con il fatto che guardare alla persona significa fare uno sforzo ulteriore, significa che la politica deve fare i conti con ciò che sembra avere dimenticato: l'importanza di avere un "fine", un senso, una naturale centralità. Infatti, se consideriamo la politica come l'attività fondamentale fra le attività umane, a cosa dovrebbe essere finalizzata se non allo sviluppo integrale della persona umana e di ogni persona umana ?
Questo ragionamento, almeno a chi scrive, apre un mondo di riflessioni e non è limitabile a un semplice ammonimento; parlare di "persona umana" in termini strategici significa guardare a un "progetto di civiltà" nell'era dell'inciviltà, della barbarie, del trionfo del disumano. E tutto questo avviene nel mondo iper-connesso, in un contesto nel quale - allo stesso tempo - arriviamo ovunque con un click ma non riusciamo più a "frequentare" le profondità dei mondi-della-vita. Da questo paradosso, frutto delle nostre stesse scelte, credo che sia importante ripartire.
Senza pretendere di portare prove, ma proponendo "sensazioni ragionate", azzardo nel dire che il mondo sembra sempre più popolato da "non persone"; lo sono coloro che non hanno voce (gli ultimi, i dimenticati), ma anche quanti esistono (non vivono) sotto i riflettori accecanti di una globalizzazione solo tecnocratica. Sia gli uni che gli altri sono in qualche modo "oppressi"; i primi da un evidente stato di necessità materiale, gli altri da un qualcosa che viene venduto come libertà ma che in realtà è molto spesso, e semplicisticamente, il frutto discutibile del potentissimo "regno dell'immaginario".
Le "non persone" appartengono a differenti classi sociali, sono trasversali; proprio in ragione del loro essere diventate "maggioranza" dell'umanità, avverto come fondamentale rimettere al centro del dibattito pubblico la "persona umana" e la sua complessità. La maggioranza di "non persone" ci chiama a una nuova responsabilità, nuova nel senso del necessario, e urgente, ritorno alla responsabilità.
La poca fortuna che, nel mondo di oggi, ha il concetto di "persona umana" si spiega con il fatto che guardare alla persona significa fare uno sforzo ulteriore, significa che la politica deve fare i conti con ciò che sembra avere dimenticato: l'importanza di avere un "fine", un senso, una naturale centralità. Infatti, se consideriamo la politica come l'attività fondamentale fra le attività umane, a cosa dovrebbe essere finalizzata se non allo sviluppo integrale della persona umana e di ogni persona umana ?
Questo ragionamento, almeno a chi scrive, apre un mondo di riflessioni e non è limitabile a un semplice ammonimento; parlare di "persona umana" in termini strategici significa guardare a un "progetto di civiltà" nell'era dell'inciviltà, della barbarie, del trionfo del disumano. E tutto questo avviene nel mondo iper-connesso, in un contesto nel quale - allo stesso tempo - arriviamo ovunque con un click ma non riusciamo più a "frequentare" le profondità dei mondi-della-vita. Da questo paradosso, frutto delle nostre stesse scelte, credo che sia importante ripartire.
Pensiero di relatività - pensiero sistemico (Marco Emanuele, Formiche)
Il pensiero di relatività è pensiero complesso; come possiamo integrare le differenze che compongono il mosaico dell'umano se non "relativizzando" reciprocamente ciò che siamo ? La relatività ci aiuta a vedere i nostri limiti, a distoglierci dalla tentazione dell'onnipotenza e a farci ri-trovare nella nostra naturale incertezza; e non è poco, in un tempo nel quale l'idea totalitaria sembra godere di ottima salute.
E' interessante notare, nella diffusa ignoranza dell'utilizzare termini omnicomprensivi (Occidente, Islam, come se corrispondessero alla realtà), come noi-umanità esistiamo in un evidentissimo paradosso: infatti, rischiamo di essere travolti dalle nostre certezze. Nessuna nega, tanto meno chi scrive, che la globalizzazione (quella che stiamo vivendo) abbia portato grandi risultati in termini di miglioramento delle condizioni di vita per milioni di persone; altresì, nessuno può negare che tale globalizzazione sia soprattutto una costruzione tecnocratica, senz'anima politica. In sostanza, abbiamo in mano uno strumento potenzialmente molto positivo mentre, in realtà, ci ritroviamo "prigionieri" di un mondo a-polare immerso in una guerra mondiale a capitoli.
Il "che fare" non ha, e non può avere, risposte semplicistiche; intanto, occorre prendere atto che nella realtà esistono soltanto sfide complesse e profondamente interrelate l'una nell'altra. Abbiamo bisogno di un pensiero di relatività che sia, al contempo, pensiero sistemico e che cerchi di re-integrare ciò che è disperso; la globalizzazione ha urgente bisogno di un senso globale.
E' interessante notare, nella diffusa ignoranza dell'utilizzare termini omnicomprensivi (Occidente, Islam, come se corrispondessero alla realtà), come noi-umanità esistiamo in un evidentissimo paradosso: infatti, rischiamo di essere travolti dalle nostre certezze. Nessuna nega, tanto meno chi scrive, che la globalizzazione (quella che stiamo vivendo) abbia portato grandi risultati in termini di miglioramento delle condizioni di vita per milioni di persone; altresì, nessuno può negare che tale globalizzazione sia soprattutto una costruzione tecnocratica, senz'anima politica. In sostanza, abbiamo in mano uno strumento potenzialmente molto positivo mentre, in realtà, ci ritroviamo "prigionieri" di un mondo a-polare immerso in una guerra mondiale a capitoli.
Il "che fare" non ha, e non può avere, risposte semplicistiche; intanto, occorre prendere atto che nella realtà esistono soltanto sfide complesse e profondamente interrelate l'una nell'altra. Abbiamo bisogno di un pensiero di relatività che sia, al contempo, pensiero sistemico e che cerchi di re-integrare ciò che è disperso; la globalizzazione ha urgente bisogno di un senso globale.
Segni dei tempi (Marco Emanuele, Formiche)
I "testimoni scomodi" sono "minoranze responsabili", persone che comprendono la complessità di essere tali. E le persone, dotate di una ragione aperta e pur nelle loro naturali contraddizioni, colgono i "segni dei tempi", evidenza storica della dinamica verità della realtà.
Cogliere i "segni dei tempi" significa guardare dentro la realtà, e dentro ogni realtà, per guardare oltre; direi che è l'unico modo per ritrovare un senso e, conseguentemente, per maturare prospettive e visioni storiche. Proprio questo è l'handicap maggiore di quella chiamo "politica dimenticata", oblio che non ha schieramenti (come dire che li comprende tutti) ma solo condivisione del "niente".
Tra i "segni dei tempi", quello più evidente mi sembra essere il trionfo del disumano. Non c'è cura, a questa disgrazia, se non quella di ripensarci pienamente umani; infatti, non possiamo negare il male che è in noi, tanto meno la possibilità di sbagliare, ma possiamo far prevalere la nostra parte responsabile, quella che ci chiama a cooperare, a ritrovare una "sacralità diffusa" in ogni altro DI noi, a de-dogmatizzare le nostre certezze, a non far prevalere la verità (presunta) del punto di vista.
I "testimoni scomodi" sono portatori sani di quello che chiamo "pensiero della relatività"; solo facendo un passo indietro, infatti, potremmo farne mille avanti, insieme.
Cogliere i "segni dei tempi" significa guardare dentro la realtà, e dentro ogni realtà, per guardare oltre; direi che è l'unico modo per ritrovare un senso e, conseguentemente, per maturare prospettive e visioni storiche. Proprio questo è l'handicap maggiore di quella chiamo "politica dimenticata", oblio che non ha schieramenti (come dire che li comprende tutti) ma solo condivisione del "niente".
Tra i "segni dei tempi", quello più evidente mi sembra essere il trionfo del disumano. Non c'è cura, a questa disgrazia, se non quella di ripensarci pienamente umani; infatti, non possiamo negare il male che è in noi, tanto meno la possibilità di sbagliare, ma possiamo far prevalere la nostra parte responsabile, quella che ci chiama a cooperare, a ritrovare una "sacralità diffusa" in ogni altro DI noi, a de-dogmatizzare le nostre certezze, a non far prevalere la verità (presunta) del punto di vista.
I "testimoni scomodi" sono portatori sani di quello che chiamo "pensiero della relatività"; solo facendo un passo indietro, infatti, potremmo farne mille avanti, insieme.
Testimoni scomodi (Marco Emanuele, Formiche)
Se guardo alla realtà liquida che ci circonda e al mondo a-polare avvolto in una guerra mondiale a capitoli, avverto la necessità di una rinnovata consapevolezza intellettuale per un pensiero sistemico adeguato a comprendere il più possibile la crescente complessità di noi, del creato e di noi nel creato.
Abbiamo bisogno di un pensiero che si incarni nelle complessità dei mondi-della-vita, che ne percorra le formalità e le informalità, gli ambiti "definiti" e le transizioni, le zone di luce e le zone di ombra. Abbiamo bisogno di un pensiero che rappresenti con realismo la nostra condizione storica in evoluzione e che ricerchi nell'individuare le chiavi culturali necessarie per comprendere la realtà (e le realtà) e per farlo in maniera auto-critica, critica e non dogmatica.
Abbiamo bisogno di "testimoni scomodi", come Papa Francesco; non ne vedo molti altri in grado di svolgere tale ruolo oggigiorno. Tali "testimoni scomodi" riescono, come Francesco, a maturare e a far maturare uno sguardo di ri-appropriazione e di riconciliazione nella realtà.
Se il pensiero dominante sembra travolgere ogni cosa, nei fatti negando la dinamicità della vita, tocca alle "minoranze responsabili" di farsi "testimoni scomodi" di realtà; quella vera, quella globale.
Abbiamo bisogno di un pensiero che si incarni nelle complessità dei mondi-della-vita, che ne percorra le formalità e le informalità, gli ambiti "definiti" e le transizioni, le zone di luce e le zone di ombra. Abbiamo bisogno di un pensiero che rappresenti con realismo la nostra condizione storica in evoluzione e che ricerchi nell'individuare le chiavi culturali necessarie per comprendere la realtà (e le realtà) e per farlo in maniera auto-critica, critica e non dogmatica.
Abbiamo bisogno di "testimoni scomodi", come Papa Francesco; non ne vedo molti altri in grado di svolgere tale ruolo oggigiorno. Tali "testimoni scomodi" riescono, come Francesco, a maturare e a far maturare uno sguardo di ri-appropriazione e di riconciliazione nella realtà.
Se il pensiero dominante sembra travolgere ogni cosa, nei fatti negando la dinamicità della vita, tocca alle "minoranze responsabili" di farsi "testimoni scomodi" di realtà; quella vera, quella globale.
mercoledì 9 marzo 2016
Pensieri sulla democrazia (Marco Emanuele)
Accendiamo una luce sulla democrazia e chiediamoci se è tutto oro ciò che luccica. Chiediamoci, con realismo, se la forma della democrazia corrisponde ancora alla sua sostanza; se, cioè, la retorica globalizzata della democrazia ci conduce davvero a sviluppare le potenzialità democratiche.
Temo che la risposta non possa essere del tutto positiva. Chiamiamo democratici dei sistemi nei quali si lascia degenerare il senso democratico in nome del consenso e della governabilità; altresì, vi sono numerose situazioni nelle quali, sotto la parola democrazia, si oltraggiano i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone ridotte a non persone, spesso invisibili alle luci della ribalta.
Quando va bene siamo immersi in una "democrazia pubblicitaria", regno dell'immaginario e del bisogno. Quando va male siamo di fronte alla esportazione del "modello democratico" attraverso la guerra.
Urge un ripensamento profondo del concetto di democrazia che, forse, va de-strutturato e ri-strutturato e de-dogmatizzato per relativizzarlo e per contaminarlo, fecondandolo, nelle contraddizioni - potenzialità (complessità) dei mondi-della-vita.
Temo che la risposta non possa essere del tutto positiva. Chiamiamo democratici dei sistemi nei quali si lascia degenerare il senso democratico in nome del consenso e della governabilità; altresì, vi sono numerose situazioni nelle quali, sotto la parola democrazia, si oltraggiano i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone ridotte a non persone, spesso invisibili alle luci della ribalta.
Quando va bene siamo immersi in una "democrazia pubblicitaria", regno dell'immaginario e del bisogno. Quando va male siamo di fronte alla esportazione del "modello democratico" attraverso la guerra.
Urge un ripensamento profondo del concetto di democrazia che, forse, va de-strutturato e ri-strutturato e de-dogmatizzato per relativizzarlo e per contaminarlo, fecondandolo, nelle contraddizioni - potenzialità (complessità) dei mondi-della-vita.
Società aperte e complessità (Marco Emanuele)
Nelle società aperte, la complessità aumenta. Per questa ragione, l'approccio lineare e separante al quale siamo abituati è controproducente sia nel senso che non ci aiuta a conoscere per comprendere le realtà in evoluzione sia perché fa degenerare le realtà stesse e la realtà globale.
Nell' approccio lineare, la certezza trionfa e ci rende profondamente precari. Infatti, a cosa servono i nostri modelli consolidati nella comprensione e nel governo di un mondo immerso nella "guerra mondiale a pezzi" ? Come le categorie della politica, dell'economia, del diritto, come i governi e le diplomazie stanno rispondendo all'innalzarsi del livello di crudeltà che ci circonda, alla strumentalizzazione del dato religioso, alle difficoltà di costruire una convivenza degna dell'umanità in città che sono "giungle non governate", al diffondersi sempre crescente dell'idea totalitaria (e Daesh ne è solo un esempio, forse il più drammatico) ? Le società aperte, che offrono infinite possibilità di cooperazione globale, stanno diventando primitive e auto-referenziali realtà non dialoganti eppure percorse dai flussi del mondo in ogni territorio.
Ciò che manca, con grande evidenza, è la capacità di governo politico della globalizzazione e delle infinite differenze che la caratterizzano, oggi non valorizzate e, anzi, negate dalla nostra incapacità di cogliere e di accogliere la complessità di ciò che siamo. Tale operazione di "omologazione globalizzata" nega la verità della realtà e ci porta, nella illusione dello sviluppo infinito, a rottamare tutto ciò che non corrisponde al "presunto nuovo" e che, invece, appartiene a una esperienza alla quale non possiamo sfuggire. Siamo in ragione di ciò che siamo stati e, se la storia non è maestra di vita, essa inevitabilmente condiziona la sostenibilità del presente e la costruzione del futuro, al di là di ciò che pensano i dominanti, competitivi di professione.
Nell' approccio lineare, la certezza trionfa e ci rende profondamente precari. Infatti, a cosa servono i nostri modelli consolidati nella comprensione e nel governo di un mondo immerso nella "guerra mondiale a pezzi" ? Come le categorie della politica, dell'economia, del diritto, come i governi e le diplomazie stanno rispondendo all'innalzarsi del livello di crudeltà che ci circonda, alla strumentalizzazione del dato religioso, alle difficoltà di costruire una convivenza degna dell'umanità in città che sono "giungle non governate", al diffondersi sempre crescente dell'idea totalitaria (e Daesh ne è solo un esempio, forse il più drammatico) ? Le società aperte, che offrono infinite possibilità di cooperazione globale, stanno diventando primitive e auto-referenziali realtà non dialoganti eppure percorse dai flussi del mondo in ogni territorio.
Ciò che manca, con grande evidenza, è la capacità di governo politico della globalizzazione e delle infinite differenze che la caratterizzano, oggi non valorizzate e, anzi, negate dalla nostra incapacità di cogliere e di accogliere la complessità di ciò che siamo. Tale operazione di "omologazione globalizzata" nega la verità della realtà e ci porta, nella illusione dello sviluppo infinito, a rottamare tutto ciò che non corrisponde al "presunto nuovo" e che, invece, appartiene a una esperienza alla quale non possiamo sfuggire. Siamo in ragione di ciò che siamo stati e, se la storia non è maestra di vita, essa inevitabilmente condiziona la sostenibilità del presente e la costruzione del futuro, al di là di ciò che pensano i dominanti, competitivi di professione.
Il mondo ha bisogno di "pensiero complesso" (Marco Emanuele)
L'intellettuale vive la "fragilità" del dubbio perchè è consapevole che l'incertezza della realtà dipende dalla incertezza di ogni persona umana. Detto questo, l'intellettuale sa che l'incertezza è un dato costitutivo della persona e della realtà, potremmo dire un dato "naturale" e che con essa bisogna fare i conti, anzitutto culturalmente.
L'incertezza non può essere cancellata come un errore ma va vissuta come una grande potenzialità. Nel primo caso, infatti, negheremmo a noi stessi ciò che siamo, introducendo la categoria della "certezza" come fondante e fondamentale del e nel nostro agire personale e comune. Certezza che vorremmo applicare a tutti gli ambiti della convivenza, senza alcuna problematizzazione nelle contraddizioni dei mondi-della-vita. Direi che abbiamo scelto questa strada, spingendo senza pensiero auto-critico e critico su un modello globalizzato e, in esso, sul modello democratico.
Sia chiaro; globalizzazione e democrazia sono, di principio, processi positivi ma, sottolineiamo, processi. Intenderli come modelli significa "dogmatizzarli", renderli in qualche modo non discutibili come "verità in sè"; e questo approccio, unito al nostro "pensiero lineare", ci sta conducendo alla degenerazione. Il mondo, come non mai, ha bisogno di "pensiero complesso".
L'incertezza non può essere cancellata come un errore ma va vissuta come una grande potenzialità. Nel primo caso, infatti, negheremmo a noi stessi ciò che siamo, introducendo la categoria della "certezza" come fondante e fondamentale del e nel nostro agire personale e comune. Certezza che vorremmo applicare a tutti gli ambiti della convivenza, senza alcuna problematizzazione nelle contraddizioni dei mondi-della-vita. Direi che abbiamo scelto questa strada, spingendo senza pensiero auto-critico e critico su un modello globalizzato e, in esso, sul modello democratico.
Sia chiaro; globalizzazione e democrazia sono, di principio, processi positivi ma, sottolineiamo, processi. Intenderli come modelli significa "dogmatizzarli", renderli in qualche modo non discutibili come "verità in sè"; e questo approccio, unito al nostro "pensiero lineare", ci sta conducendo alla degenerazione. Il mondo, come non mai, ha bisogno di "pensiero complesso".
domenica 6 marzo 2016
Pillole (Marco Emanuele)
Abbiamo il dono della libertà, che è anche libertà di sbagliare
Realtà fa rima con verità (Marco Emanuele)
Realtà e verità sono parole rifiutate dalla non cultura tecnocratica dominante.
Infatti, per realtà intendiamo solo ciò che vediamo e non ciò che nascondiamo (sulla Libia, ad esempio, la grande partita strategica in atto) e, soprattutto, non le informalità e le transizioni che appartengono alla vita dei popoli (che, per noi, rappresentano numeri o problemi e non possibilità di "integrazione non dominante" e, tanto meno, necessità di comprensione e di governo dei e nei processi storici vitali).
Per verità intendiamo le nostre certezze, elevati a dogmi, che assolutizziamo reciprocamente in nome, troppo spesso, di un dio che nega (e che fa piangere) il Dio della Misericordia. Non guardiamo alla dinamicità della verità, al suo essere vera in quanto "evoluzione complessa".
Detto questo, per recuperare il senso profondo di realtà e di verità abbiamo bisogno di una cultura politica che si ripensi e si rifondi in nome della complessità dei mondi-della-vita. Abbiamo bisogno di intellettuali capaci di riappropriarsi (e di farci riappropriare) dei "segni dei tempi", rivalutando l'incertezza della condizione umana nel creato. Abbiamo bisogno di "classi dirigenti" che riscoprano il loro senso e la loro "missione" al di là dell'apparenza e dell'imminenza.
Penso alla democrazia, fattasi "pubblicitaria". La esportiamo, accompagnandola a guerre d'interesse, mentre nei nostri territori "competitivi" i sistemi democratici somigliano sempre più a "supermercati" nei quali gli utenti-clienti scelgono prodotti in ragione dei loro bisogni, condizionati da un immaginario indotto dal "grande spot" che va oltre la vita e che condanna la fatica della riflessione. E' così che una democrazia che guarda semplicisticamente all'esistenza è "pubblicitaria" ma, soprattutto, "primitiva".
Dobbiamo recuperare una cultura della realtà e della verità e, altresì, una cultura del contesto; nulla, nel mondo di oggi, è comprensibile senza considerare il globale in ogni particolare e, viceversa, il fatto che il globale è l'integrazione degli infiniti "differenti umani". Si tratta di una "rivoluzione" del e nostro modo di pensare e di agire, al di là del fare.
Infatti, per realtà intendiamo solo ciò che vediamo e non ciò che nascondiamo (sulla Libia, ad esempio, la grande partita strategica in atto) e, soprattutto, non le informalità e le transizioni che appartengono alla vita dei popoli (che, per noi, rappresentano numeri o problemi e non possibilità di "integrazione non dominante" e, tanto meno, necessità di comprensione e di governo dei e nei processi storici vitali).
Per verità intendiamo le nostre certezze, elevati a dogmi, che assolutizziamo reciprocamente in nome, troppo spesso, di un dio che nega (e che fa piangere) il Dio della Misericordia. Non guardiamo alla dinamicità della verità, al suo essere vera in quanto "evoluzione complessa".
Detto questo, per recuperare il senso profondo di realtà e di verità abbiamo bisogno di una cultura politica che si ripensi e si rifondi in nome della complessità dei mondi-della-vita. Abbiamo bisogno di intellettuali capaci di riappropriarsi (e di farci riappropriare) dei "segni dei tempi", rivalutando l'incertezza della condizione umana nel creato. Abbiamo bisogno di "classi dirigenti" che riscoprano il loro senso e la loro "missione" al di là dell'apparenza e dell'imminenza.
Penso alla democrazia, fattasi "pubblicitaria". La esportiamo, accompagnandola a guerre d'interesse, mentre nei nostri territori "competitivi" i sistemi democratici somigliano sempre più a "supermercati" nei quali gli utenti-clienti scelgono prodotti in ragione dei loro bisogni, condizionati da un immaginario indotto dal "grande spot" che va oltre la vita e che condanna la fatica della riflessione. E' così che una democrazia che guarda semplicisticamente all'esistenza è "pubblicitaria" ma, soprattutto, "primitiva".
Dobbiamo recuperare una cultura della realtà e della verità e, altresì, una cultura del contesto; nulla, nel mondo di oggi, è comprensibile senza considerare il globale in ogni particolare e, viceversa, il fatto che il globale è l'integrazione degli infiniti "differenti umani". Si tratta di una "rivoluzione" del e nostro modo di pensare e di agire, al di là del fare.
I veri interessi (Marco Emanuele)
Continuando a guardare con la lente del realismo al caso Libia, Alberto Negri sul Sole 24 Ore di oggi, Un bottino da (almeno) 130 miliardi, sottolinea che la guerra al Califfato è la risposta di comodo del perché fare una guerra in un Paese che, ricorda Negri, "era al primo posto in Africa nell'indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito".
Negri sottolinea che "La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l'export di petrolio".
Continua Negri scrivendo che "Il bottino libico, nell'unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell'Egitto, e dell'Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica".
Detto tutto questo, quando scrivo di realismo, e in particolare che le "relazioni internazionali" nel terzo millennio altro non sono che "reazioni internazionali", invito a considerare che la retorica sulla esportazione di una "democrazia-modello" provoca la sua negazione. Dov'è il marcio ? E' ovunque, anche nel nostro inesistente "bene assoluto" che portiamo in giro per il mondo come una madonna pagana. Molto dipende dai soldi (no news, per la verità ...) e la politica è solo uno strumento vuoto che serve a realizzare compromessi fra interessi divergenti. Intanto, mentre si consumano banchetti strategici sulla testa della realtà, le condizioni dei popoli degenerano, l'ISIS ne approfitta e noi, sudditi-clienti (aspiranti cittadini) di "democrazie pubblicitarie", votiamo in primarie che sanno di niente.
Negri sottolinea che "La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l'export di petrolio".
Continua Negri scrivendo che "Il bottino libico, nell'unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell'Egitto, e dell'Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica".
Detto tutto questo, quando scrivo di realismo, e in particolare che le "relazioni internazionali" nel terzo millennio altro non sono che "reazioni internazionali", invito a considerare che la retorica sulla esportazione di una "democrazia-modello" provoca la sua negazione. Dov'è il marcio ? E' ovunque, anche nel nostro inesistente "bene assoluto" che portiamo in giro per il mondo come una madonna pagana. Molto dipende dai soldi (no news, per la verità ...) e la politica è solo uno strumento vuoto che serve a realizzare compromessi fra interessi divergenti. Intanto, mentre si consumano banchetti strategici sulla testa della realtà, le condizioni dei popoli degenerano, l'ISIS ne approfitta e noi, sudditi-clienti (aspiranti cittadini) di "democrazie pubblicitarie", votiamo in primarie che sanno di niente.
sabato 5 marzo 2016
Realismo e prospettiva (Marco Emanuele)
Apprezzo quei commentatori, come Mieli sul Corriere della Sera di oggi (La missione e i suoi pericoli), che mostrano la complessità di una possibile missione in Libia. Ebbene, il realismo è d'obbligo. Parlerei più di consapevolezza strategica, legata soprattutto al dopo; la storia potrebbe informarci (se non insegnarci) che i troppi errori commessi in nome della democrazia e della libertà fanno dell' "occidente" più un complice della degenerazione globalizzata (guerra mondiale a capitoli) che non un "salvatore". Il monito è chiaro: non scherziamo con un fuoco con il quale già ci siamo bruciati.
Mieli conclude il suo editoriale elencando alcuni punti di riflessione: 1) le "autentiche catastrofi" provocate dalle guerre combattute dall'Occidente dalla caduta del muro di Berlino ad oggi; 2) andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar, protetto dall'Egitto. Dopo il caso Regeni, i rapporti con il Cairo non sono tra i migliori; 3) quale deve essere "la meta di questo tragitto da compiere in armi" ?; 4) l'auspicio che la missione sia definita per quella che è, di guerra, senza nasconderla dietro ai "neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari".
Aggiungo una riflessione. Dal punto di vista culturale, come ho già scritto, abbiamo la responsabilità di guardare oltre la Libia; che ne sarà dell'area mediterranea e mediorientale "allargata" ? Ma questo è un altro film, necessario da vedere, che non riguarda la cronaca dei nostri giorni ma il nostro impegno (di intellettuali auto-critici, critici e liberi) dei prossimi mesi e dei prossimi anni.
Mieli conclude il suo editoriale elencando alcuni punti di riflessione: 1) le "autentiche catastrofi" provocate dalle guerre combattute dall'Occidente dalla caduta del muro di Berlino ad oggi; 2) andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar, protetto dall'Egitto. Dopo il caso Regeni, i rapporti con il Cairo non sono tra i migliori; 3) quale deve essere "la meta di questo tragitto da compiere in armi" ?; 4) l'auspicio che la missione sia definita per quella che è, di guerra, senza nasconderla dietro ai "neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari".
Aggiungo una riflessione. Dal punto di vista culturale, come ho già scritto, abbiamo la responsabilità di guardare oltre la Libia; che ne sarà dell'area mediterranea e mediorientale "allargata" ? Ma questo è un altro film, necessario da vedere, che non riguarda la cronaca dei nostri giorni ma il nostro impegno (di intellettuali auto-critici, critici e liberi) dei prossimi mesi e dei prossimi anni.
Primarie si, primarie no (Marco Emanuele)
Nell' "assenza degenerante" della politica, nel contesto della "democrazia pubblicitaria", il tema posto all'oggetto di questa riflessione appare secondario; e lo è, a mia valutazione, se non si coglie il problema vero.
Il centro della questione è, secondo me, nella necessità di ripensare per rifondare la politica. Nella società liquida, cadute le ideologie e crollati i punti di riferimento, nel mondo a-polare, nella spinta strategica della non-cultura tecnocratica, la politica sembra vivere uno straordinario smarrimento. Prigioniera degli schemi novecenteschi, la politica si avvita in un linguaggio irreale, che non coglie i "segni dei tempi" e le dinamiche della realtà vera dei mondi-della-vita (si pensi, in Italia, alla assurda superficialità con cui si è affrontato il tema dell'amore coniugale e filiale).
Le esperienze politiche che non si collocano nella classica distinzione destra-sinistra-centro, come il Movimento Cinque Stelle, non sembrano avere quello spessore capace di governare i fenomeni e i processi storici; i partiti riconducibili sotto le etichette di destra, sinistra, centro sono sempre di più in avanzato stato di decomposizione (o di omologazione, che è poi la stessa cosa); il populismo e l'indifferenza aumentano; gli outsider, come Trump in America, sembrano dimenticare che le persone possono usare anche la ragione e non solo la pancia.
In tutto questo, si impone la domanda: la formazione di "classi dirigenti" continua ad essere un tema fondamentale per il governo degli Stati e del mondo ? La mia risposta è sì e, se è così, ciò che ci circonda non è più sufficiente, anzi è deleterio.
Primarie si o primarie no ? Stefano Folli ne parla con realismo su la Repubblica di oggi, A destra la parodia di una sfida vera che spegne la stella di Berlusconi. Per quanto mi riguarda, la risposta è sì, senza troppe illusioni.
Il centro della questione è, secondo me, nella necessità di ripensare per rifondare la politica. Nella società liquida, cadute le ideologie e crollati i punti di riferimento, nel mondo a-polare, nella spinta strategica della non-cultura tecnocratica, la politica sembra vivere uno straordinario smarrimento. Prigioniera degli schemi novecenteschi, la politica si avvita in un linguaggio irreale, che non coglie i "segni dei tempi" e le dinamiche della realtà vera dei mondi-della-vita (si pensi, in Italia, alla assurda superficialità con cui si è affrontato il tema dell'amore coniugale e filiale).
Le esperienze politiche che non si collocano nella classica distinzione destra-sinistra-centro, come il Movimento Cinque Stelle, non sembrano avere quello spessore capace di governare i fenomeni e i processi storici; i partiti riconducibili sotto le etichette di destra, sinistra, centro sono sempre di più in avanzato stato di decomposizione (o di omologazione, che è poi la stessa cosa); il populismo e l'indifferenza aumentano; gli outsider, come Trump in America, sembrano dimenticare che le persone possono usare anche la ragione e non solo la pancia.
In tutto questo, si impone la domanda: la formazione di "classi dirigenti" continua ad essere un tema fondamentale per il governo degli Stati e del mondo ? La mia risposta è sì e, se è così, ciò che ci circonda non è più sufficiente, anzi è deleterio.
Primarie si o primarie no ? Stefano Folli ne parla con realismo su la Repubblica di oggi, A destra la parodia di una sfida vera che spegne la stella di Berlusconi. Per quanto mi riguarda, la risposta è sì, senza troppe illusioni.
Corruzione, democrazia, politica (Marco Emanuele)
Ciò che sta accadendo in Brasile e in America Latina, in relazione alle grandi inchieste sulla corruzione, pone - a mia valutazione - un problema più grande che riguarda il governo e la sostenibilità dei sistemi democratici. Certo, c'è la questione del "senso" della separazione dei poteri (fatto formalistico o sostanziale ?); Moises Naim, nel suo articolo su la Repubblica di oggi (Il mito di Lula finisce nella polvere), si augura che il giudice federale Moro, in Brasile, si limiti a fare il suo lavoro e non segua le orme del collega italiano Di Pietro, "senza usare popolarità e simpatia per riempire il vuoto politico che le sue inchieste stanno creando". In secondo luogo, c'è la questione di classi politiche e di partiti che, ormai in molti contesti, non sembrano più in grado di rinnovarsi se non per via giudiziaria e che non sembrano più avere la capacità di essere fucine di "classi dirigenti". In sostanza, la riflessione sul rapporto fra corruzione e democrazia va inserita nel contesto più ampio del ripensamento per la rifondazione della democrazia stessa, e della politica.
Oltre la Libia (Marco Emanuele)
Il caso Libia, apprezzando le cautele del nostro premier ma un pò di meno il teatrino urlato della politica nostrana e le spinte "esterne" per l'intervento, evidenzia un dato non più eludibile; come può rispondere, quella che chiamiamo "comunità internazionale", alla degenerazione che vediamo ogni giorno nei Paesi del Mediterraneo (anche in quelli apparentemente pacificati) e del Medio Oriente allargato ? Questo è il vero problema strategico, ad oggi irrisolto e sempre più complicato. Spero che si formino le condizioni per una decisione chiara del nostro Paese sulla questione libica (dove, politicamente, sembriamo aspettare un governo di stabilizzazione in uno Stato fallito ...) ma, aggiungo, tale possibile intervento deve essere collocato strategicamente nel quadro complessivo e complesso dell'area mediterranea-mediorientale. Qui, io credo, abbiamo bisogno di un lavoro di medio-lungo termine, anzitutto culturale e di dialogo profondo. Intanto, che l'intelligence, i corpi speciali e gli eserciti facciano il loro lavoro; e che la politica, prudente, dignitosa e senza troppo rumore, ritrovi un proprio ruolo e lo faccia valere.
Libia, non Libia, chissà (Marco Emanuele)
Certo sembra, leggendo i giornali sul presunto - poi negato - poi riproposto - poi da ripensare - poi chissà - intervento in Libia, che la situazione sfugga al controllo del teatrino della politica. Gli statisti che tutto il mondo ci invidia si muovono tra interessi economici, coalizioni internazionali, governo legittimo in Libia ad oggi inesistente, possibile intervento militare. Ci rendiamo conto della fragilità del tutto ? L'opinione pubblica è messa di fronte al buio rumoroso della confusione; non si capisce l'entità del problema, che sembra grave, e, di conseguenza, non si capiscono le possibili soluzioni. Detto questo, siamo di fronte a un intervento militare condizionato dal condizionale; non sarebbe meglio, lo chiedo agli statisti, un pò di silenzio stampa e una decisione più consapevole ?
Pillole (Marco Emanuele)
Andiamo in Libia .... non andiamo .... non è uno scherzo .... abbiamo le squadre speciali .... non abbiamo una strategia .... l'ISIS fa paura .... comandiamo noi ..... forse, signor governo, non sarebbe meglio tacere ?
Il difficile ritorno alla democrazia (Marco Emanuele)
L'editoriale di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera di oggi, Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini, è certamente interessante ma, a mia valutazione, si colloca nell'idea che la democrazia sia, ancora oggi, "dignitosa", cioè che garantisca la libertà e la rappresentanza dei cittadini. Nel merito sono d'accordo con le considerazioni di de Bortoli salvo ritenere che la democrazia di oggi, nel terzo millennio competitivo, sia diventata un'altra cosa: una democrazia "pubblicitaria". Il problema, seguendo la mia interpretazione, non è più solo, e doverosamente, di migliorare ciò che abbiamo ma, soprattutto, di ripensare la democrazia, e prima ancora la politica, in senso complesso, progettuale, "contaminata e fecondata" nei mondi-della-vita.
Convincere o con-vincere ? (Marco Emanuele)
A volte, un trattino fa la differenza.
Nella "democrazia pubblicitaria" i cittadini (o presunti tali) sembrano piuttosto clienti da convincere della bontà di "riforme-prodotto" sulle quali si scontrano gli omologati di professione (i consiglieri del principe) e gli antagonisti ad ogni costo. Mi pongo nel mezzo, cercando di guardare a ciò che accade con l'occhio complesso, progettuale; infatti, le riforme hanno certamente qualcosa di buono ma il problema non sta in esse bensì nel contesto.
Viviamo in un contesto, particolarmente (ma non esclusivamente) in Italia, nel quale abbiamo accettato di semplificare la complessità in nome del cambiamento. Si tratta, in sostanza, di un suicidio politico che, a ben guardare, diventa un trionfo tecnocratico. Credo che, per ripensare "classi dirigenti" degne di questo nome, ciò che conta, prima di ogni altra cosa, sia l'avere e il condividere un' idea strategica (o visione) del contesto complessivo nel quale viviamo e che, a differenza di un tempo, deve fare i conti con un mondo a-polare e immerso in quella che chiamiamo "guerra mondiale a capitoli".
E' chiaro che, senza visione, la "democrazia pubblicitaria" non si distingue più da un qualunque (e neppure troppo nobile) palinsesto televisivo, limitandosi ad inseguire i bisogni dei cittadini-utenti-clienti. Senza visione, nella "democrazia pubblicitaria" tutti dobbiamo essere convinti del valore di un qualcosa (sia essa una riforma o un prodotto per la casa) mentre il problema è ben diverso; dovremmo convincerci che, per diventare una democrazia dignitosa, il problema è vincere insieme, ovvero costruire una condivisione di obiettivi, di fini e di progetti.
Con-vincere, dunque, e non, semplicisticamente, convincere; questa dovrebbe essere la "mission" di "classi dirigenti" che possano definirsi tali. A volte, un trattino fa la differenza.
Nella "democrazia pubblicitaria" i cittadini (o presunti tali) sembrano piuttosto clienti da convincere della bontà di "riforme-prodotto" sulle quali si scontrano gli omologati di professione (i consiglieri del principe) e gli antagonisti ad ogni costo. Mi pongo nel mezzo, cercando di guardare a ciò che accade con l'occhio complesso, progettuale; infatti, le riforme hanno certamente qualcosa di buono ma il problema non sta in esse bensì nel contesto.
Viviamo in un contesto, particolarmente (ma non esclusivamente) in Italia, nel quale abbiamo accettato di semplificare la complessità in nome del cambiamento. Si tratta, in sostanza, di un suicidio politico che, a ben guardare, diventa un trionfo tecnocratico. Credo che, per ripensare "classi dirigenti" degne di questo nome, ciò che conta, prima di ogni altra cosa, sia l'avere e il condividere un' idea strategica (o visione) del contesto complessivo nel quale viviamo e che, a differenza di un tempo, deve fare i conti con un mondo a-polare e immerso in quella che chiamiamo "guerra mondiale a capitoli".
E' chiaro che, senza visione, la "democrazia pubblicitaria" non si distingue più da un qualunque (e neppure troppo nobile) palinsesto televisivo, limitandosi ad inseguire i bisogni dei cittadini-utenti-clienti. Senza visione, nella "democrazia pubblicitaria" tutti dobbiamo essere convinti del valore di un qualcosa (sia essa una riforma o un prodotto per la casa) mentre il problema è ben diverso; dovremmo convincerci che, per diventare una democrazia dignitosa, il problema è vincere insieme, ovvero costruire una condivisione di obiettivi, di fini e di progetti.
Con-vincere, dunque, e non, semplicisticamente, convincere; questa dovrebbe essere la "mission" di "classi dirigenti" che possano definirsi tali. A volte, un trattino fa la differenza.
venerdì 4 marzo 2016
Incantare senza riflessione (Marco Emanuele)
La "democrazia pubblicitaria" risponde a una logica chiara; incantare senza riflessione. In tale contesto, evidentemente, non vi è bisogno di "classi dirigenti" ma, semplicemente, di apparati disponibili; la politica è un armamentario del '900 perché, si dice, il problema è "fare", è ottenere dei risultati da vendere con l'abilità dei venditori di professione. Anche chi scrive pensa che i risultati siano importanti ma non che possano costituire l'essenza del processo democratico; quest'ultimo, se lo si prende seriamente, è qualcosa di complesso, di ben più articolato dell'equazione lineare "problema-soluzione". La "rete" globalizzata ci ha inquinati con la cultura dei "coach"; di conseguenza, basta un buon "team", volentieri eterodiretto, e il gioco è fatto.
Pillole (Marco Emanuele)
La "democrazia pubblicitaria" è un luccicante contenitore di bisogni. I diritti sono piccola cosa
Pillole (Marco Emanuele)
La "democrazia pubblicitaria" è il teatrino dei mediocri e dei miseri; che spesso non sono poveri materialmente
Pericolosissimi eversori (Marco Emanuele)
Nella "democrazia pubblicitaria", la conoscenza della realtà si scontra con la potenza della semplificazione e della omologazione; per superare il grande inganno dominante che ci sovrasta abbiamo bisogno di usare l'intelletto e di maturare un "pensiero complesso" (libero, profondo, radicale, auto-critico e critico), ri-pensandoci intellettuali. La "democrazia pubblicitaria" mette trofei al "non progetto" e vede con sospetto chi va oltre l'apparenza e l'imminenza. Professionalmente, nel terzo millennio globalizzato e competitivo, vengono premiati i consiglieri del principe; i consiglieri della verità, sia chiaro, sono considerati come pericolosissimi eversori.
Pillole (Marco Emanuele)
Dai diamanti non nasce niente ....... dagli americani può nascere Trump
Pillole (Marco Emanuele)
Se Trump può essere il frutto della storica democrazia americana ... abbiamo un problema
Pillole (Marco Emanuele)
Nella "democrazia pubblicitaria", lo spot, da strumento di persuasione, è diventato sostanza della politica
Pillole (Marco Emanuele)
Nella pericolosa mediocrità dominante non cogliamo più la distinzione tra povertà e miseria
L'insostenibile leggerezza della "democrazia pubblicitaria" (Marco Emanuele)
Dalla politica al "marketing politico", la democrazia somiglia sempre di più a un grande supermercato. Senza visioni strategiche condivise, senza incarnazione nei processi storici vitali, la democrazia rischia di degenerare nel suo contrario; non si tratta di una novità storica ma, guardando alla realtà del mondo di oggi, la superficialità dominante riduce una grande conquista (la democrazia) a un tecnicismo a disposizione del miglior offerente. E' un peccato, per chi scrive un dramma, e non basta più fare zapping per evitare gli spot.
Pillole (Marco Emanuele)
Siamo nel pieno dell'idea totalitaria dello sviluppo onnisciente
Pillole (Marco Emanuele)
I muri veri e virtuali sono il prezzo del nostro sviluppo infinito
Pillole (Marco Emanuele)
Siamo così sviluppati che combattiamo le cyber wars e dimentichiamo il destino dei popoli
Discorso sulle "classi dirigenti" (Marco Emanuele)
Oggi, in Italia, riprendere il discorso sulle "classi dirigenti" è una sfida epocale.
In primis, siamo nel pieno di una "cultura del comando" senza "catena di comando", cioè dell'idea che il governare possa essere un esercizio di autorità solo calato dall'alto e non condiviso in termini sistemici; tale idea fa il paio con una concezione della democrazia intesa come modello (quasi come dogma), come contenitore generante in sé convivenza, giustizia e libertà e non della democrazia intesa come un processo storico dinamico che deve incarnarsi in ogni "contesto complesso", adattandosi in ciascuno di essi.
Le "classi dirigenti" della "democrazia-modello" altro non sono che tecnocrati senz'anima politica, travestiti da politici. Si tratta, in questo caso, di esponenti di quella cultura dominante che pensa i corpi sociali come semplici "cuscinetti" fra la realtà e il potere e che non considera la complessità e l'incertezza dei processi storici vitali come l'alimento naturale del "vivere insieme" di un popolo e per la sua organizzazione.
Credo che sia sempre più urgente lavorare per "classi dirigenti" della "democrazia-processo". Il lavoro è lungo e faticoso ma richiede la consapevolezza storica (auto-critica e critica) che la democrazia non può prescindere dalla sua problematizzazione continua; per fare questo ci vuole una cultura della realtà e le "classi dirigenti" degne di questo nome sono "classi visionarie", impegnate a maturare e a far maturare realistiche visioni di convivenza.
Nell'Italia dell'eterno presente, dove si confondono la rottamazione e la omologazione con il cambiamento, parlare di "classi dirigenti" significa invocare una rivoluzione necessaria.
In primis, siamo nel pieno di una "cultura del comando" senza "catena di comando", cioè dell'idea che il governare possa essere un esercizio di autorità solo calato dall'alto e non condiviso in termini sistemici; tale idea fa il paio con una concezione della democrazia intesa come modello (quasi come dogma), come contenitore generante in sé convivenza, giustizia e libertà e non della democrazia intesa come un processo storico dinamico che deve incarnarsi in ogni "contesto complesso", adattandosi in ciascuno di essi.
Le "classi dirigenti" della "democrazia-modello" altro non sono che tecnocrati senz'anima politica, travestiti da politici. Si tratta, in questo caso, di esponenti di quella cultura dominante che pensa i corpi sociali come semplici "cuscinetti" fra la realtà e il potere e che non considera la complessità e l'incertezza dei processi storici vitali come l'alimento naturale del "vivere insieme" di un popolo e per la sua organizzazione.
Credo che sia sempre più urgente lavorare per "classi dirigenti" della "democrazia-processo". Il lavoro è lungo e faticoso ma richiede la consapevolezza storica (auto-critica e critica) che la democrazia non può prescindere dalla sua problematizzazione continua; per fare questo ci vuole una cultura della realtà e le "classi dirigenti" degne di questo nome sono "classi visionarie", impegnate a maturare e a far maturare realistiche visioni di convivenza.
Nell'Italia dell'eterno presente, dove si confondono la rottamazione e la omologazione con il cambiamento, parlare di "classi dirigenti" significa invocare una rivoluzione necessaria.
Pillole (Marco Emanuele)
Trump esprime il dramma dell'assenza degenerante della politica. Quanti Trump ci sono in giro per il mondo ma, soprattutto, quanti Trump ci sono dentro di noi ?
giovedì 3 marzo 2016
Pillole (Marco Emanuele)
Globalizziamo e degeneriamo. E sarebbe questo il nostro sviluppo ?
Pillole (Marco Emanuele)
Quando sento parlare di "comunità internazionale" e di "società civile" penso al trucco pesante di una donna bruttissima. Che resta tale.
Pillole (Marco Emanuele)
E' in atto uno scontro strategico tra realtà e irrealtà, tra umano e disumano, tra bisogno di civiltà e ansie da civilizzazione. Sta a noi decidere chi vincerà
Pillole (Marco Emanuele)
Ai competitivi di professione dico che, se scoprissero la cooperazione, ritornerebbero a vivere
Siamo totalmente complici (Marco Emanuele)
Abbiamo "ridotto" la politica a "marketing politico", ritrovandoci immersi in una (presunta) politica che informa ma che non conosce e che, di conseguenza, non comprende la realtà e non riesce più a garantire una direzione strategica alla convivenza umana nel creato.
La drammatica "assenza degenerante" della politica apre le porte a sempre maggiori scenari di dis-integrazione, di semplificazione, di separazione, di guerra.
Di fronte a tutto questo, dobbiamo prendere atto che il ripensamento per la rifondazione della politica è tanto urgente quanto necessario. Quando sento parlare di "scuole di politica", confesso di avvertire il richiamo del vuoto che "insegna" il vuoto mentre, nella realtà, continua a sentirsi il fastidioso rumore di una rottamazione che si è fatta occupazione del potere e che, da presunta novità, si è trasformata in un patetico "dejà vu".
Per quanto ovvio, l' "assenza degenerante" della politica provoca l'appiattimento del dibattito pubblico sulla netta separazione fra amici-nemici, buoni-cattivi, bianco-nero. Così facendo, ampliamo sempre di più lo spazio globalizzato dell'arena competitiva nella quale si consumano le nostre "certezze imminenti", illusione di poter fare a meno dell'incertezza dell'esperienza nel suo "giusto" tempo; ci illudiamo di poter vincere a ogni costo, portando tutto sul brevissimo termine e "riducendo" la vita ad esistenza (dominabile).
Chi ha combattuto o è morto per la libertà di tutti, in questo clima di irresponsabilità verso il nostro "destino comune", combatte o muore per la seconda volta. Di questo, non vivendo, siamo totalmente complici.
La drammatica "assenza degenerante" della politica apre le porte a sempre maggiori scenari di dis-integrazione, di semplificazione, di separazione, di guerra.
Di fronte a tutto questo, dobbiamo prendere atto che il ripensamento per la rifondazione della politica è tanto urgente quanto necessario. Quando sento parlare di "scuole di politica", confesso di avvertire il richiamo del vuoto che "insegna" il vuoto mentre, nella realtà, continua a sentirsi il fastidioso rumore di una rottamazione che si è fatta occupazione del potere e che, da presunta novità, si è trasformata in un patetico "dejà vu".
Per quanto ovvio, l' "assenza degenerante" della politica provoca l'appiattimento del dibattito pubblico sulla netta separazione fra amici-nemici, buoni-cattivi, bianco-nero. Così facendo, ampliamo sempre di più lo spazio globalizzato dell'arena competitiva nella quale si consumano le nostre "certezze imminenti", illusione di poter fare a meno dell'incertezza dell'esperienza nel suo "giusto" tempo; ci illudiamo di poter vincere a ogni costo, portando tutto sul brevissimo termine e "riducendo" la vita ad esistenza (dominabile).
Chi ha combattuto o è morto per la libertà di tutti, in questo clima di irresponsabilità verso il nostro "destino comune", combatte o muore per la seconda volta. Di questo, non vivendo, siamo totalmente complici.
Torneremo a essere persone umane ? (Marco Emanuele)
Torneremo a essere persone umane ? L’evidenza del “mondo capovolto” è nel nostro appiattimento sulla competizione esasperata nell’eterno presente e nella confusione, ormai conclamata, tra mezzi e fini.
Chiunque abbia un minimo di sensibilità verso ciò che è umano si rende conto della insostenibilità di un sistema globalizzato non guidato politicamente ma alimentato da una “non cultura” tecnocratica che ha fatto della certezza il suo mantra.
Per quanto possa apparire banale e acquisito, parlare di persona umana è una svolta strategica. E’ la persona umana, e il suo “mistero storico”, che ci mette di fronte alla sfida della complessità. Guardare il mondo a partire dalla persona significa ripensare tutti i nostri paradigmi interpretativi della realtà, anzitutto rivalutando l’incertezza come fondamento del nostro essere e del nostro “essere insieme”.
Abbiamo bisogno di “resettare” ciò che abbiamo costruito come sovrastruttura dell’esistere e che cancella, progressivamente, i fondamenti del vivere. In sostanza, esistiamo ma non viviamo.
Nella persona umana, in ciascuno di noi, c’è la realtà “che è” e che ciascuno incarna in maniera unica e irripetibile. Da questo discende il valore della “differenza” che non è diversità ma la globalità che si fa in noi.
La domanda iniziale si colloca nel quadro del nostro “eterno presente” nel quale la “liquidità”, come un’alluvione di senso, tutto travolge e tutto omologa in nome di uno sviluppo senza tempi e senza spazi; ma i tempi e gli spazi della vita, quelli veri, si ribellano e cercano una loro dignità. Da qui, realisticamente, discende il clima di “guerra permanente a capitoli” nel quale siamo immersi.
Chiunque abbia un minimo di sensibilità verso ciò che è umano si rende conto della insostenibilità di un sistema globalizzato non guidato politicamente ma alimentato da una “non cultura” tecnocratica che ha fatto della certezza il suo mantra.
Per quanto possa apparire banale e acquisito, parlare di persona umana è una svolta strategica. E’ la persona umana, e il suo “mistero storico”, che ci mette di fronte alla sfida della complessità. Guardare il mondo a partire dalla persona significa ripensare tutti i nostri paradigmi interpretativi della realtà, anzitutto rivalutando l’incertezza come fondamento del nostro essere e del nostro “essere insieme”.
Abbiamo bisogno di “resettare” ciò che abbiamo costruito come sovrastruttura dell’esistere e che cancella, progressivamente, i fondamenti del vivere. In sostanza, esistiamo ma non viviamo.
Nella persona umana, in ciascuno di noi, c’è la realtà “che è” e che ciascuno incarna in maniera unica e irripetibile. Da questo discende il valore della “differenza” che non è diversità ma la globalità che si fa in noi.
La domanda iniziale si colloca nel quadro del nostro “eterno presente” nel quale la “liquidità”, come un’alluvione di senso, tutto travolge e tutto omologa in nome di uno sviluppo senza tempi e senza spazi; ma i tempi e gli spazi della vita, quelli veri, si ribellano e cercano una loro dignità. Da qui, realisticamente, discende il clima di “guerra permanente a capitoli” nel quale siamo immersi.
martedì 1 marzo 2016
Volentieri rottamiamo (Marco Emanuele)
Manchiamo di evoluzione del senso civico, di quella consapevolezza del "comune" che si sta sfaldando sotto i colpi dell' "individualismo competitivo" e del "pre-giudizio strumentale".
A forza di competere, eliminiamo dal nostro orizzonte di senso tutto ciò che ci appartiene in quanto umanità e che dà senso alle nostre vite personali e alle nostre vite-in-comune; volentieri rottamiamo, forse non rendendoci conto del dramma di significato che caratterizza quel verbo. Infatti, rottamando, vogliamo con insistenza il nuovo, il futuro ad ogni costo ma saltiamo a piè pari la dimensione strategica dell'esperienza e il fatto che il futuro già ci appartiene perché il cambiamento è in noi.
In sostanza, nel competere e nel rottamare, consolidiamo la fragilità del nostro esistere e non diamo respiro alla complessità del vivere. Paradossalmente, più esistiamo sulle certezze consolidate e non problematizzate e più siamo precari. Saremo anche "tecnologicamente avanzati" ma, in realtà, siamo "primitivi progrediti".
I proclami del "circo politicante" urtano solo il sistema nervoso dei tanti che non credono alla retorica d'avanspettacolo nella quale siamo immersi; ma non basta più indignarsi, occorre che gli intellettuali escano allo scoperto, ritornino nei mondi-della-vita e pongano, con grande serietà, il tema (sempre più strategico e non più eludibile) della formazione di classi dirigenti degne di questo nome.
A forza di competere, eliminiamo dal nostro orizzonte di senso tutto ciò che ci appartiene in quanto umanità e che dà senso alle nostre vite personali e alle nostre vite-in-comune; volentieri rottamiamo, forse non rendendoci conto del dramma di significato che caratterizza quel verbo. Infatti, rottamando, vogliamo con insistenza il nuovo, il futuro ad ogni costo ma saltiamo a piè pari la dimensione strategica dell'esperienza e il fatto che il futuro già ci appartiene perché il cambiamento è in noi.
In sostanza, nel competere e nel rottamare, consolidiamo la fragilità del nostro esistere e non diamo respiro alla complessità del vivere. Paradossalmente, più esistiamo sulle certezze consolidate e non problematizzate e più siamo precari. Saremo anche "tecnologicamente avanzati" ma, in realtà, siamo "primitivi progrediti".
I proclami del "circo politicante" urtano solo il sistema nervoso dei tanti che non credono alla retorica d'avanspettacolo nella quale siamo immersi; ma non basta più indignarsi, occorre che gli intellettuali escano allo scoperto, ritornino nei mondi-della-vita e pongano, con grande serietà, il tema (sempre più strategico e non più eludibile) della formazione di classi dirigenti degne di questo nome.
Il dramma degli intellettuali (Marco Emanuele)
Il mondo di oggi, a-polare e senza direzione strategica, ci pone di fronte a problemi epocali e non governati. Penso all'immigrazione, all'allarmismo strumentale e senza progetto che viene diffuso e alla carenza di dibattito su una sfida planetaria che sta riconfigurando i nostri Stati e le nostre città; i politici parlano solo il linguaggio della omologazione o della contrapposizione di parte, partigiani del niente.
E gli intellettuali ? Dove sono coloro che dovrebbero aiutarci a comprendere i "segni dei tempi" ? Alcuni si limitano a evocare i valori e i diritti umani, altri tacciono, altri ancora si limitano a dare ragione al principe di turno; la verità storica, quella a cui bisognerebbe tendere per elaborare visioni di società e progetti di civiltà (siamo ancora nel pieno della civilizzazione e del dominio), è continuamente trascurata e offesa.
L'intellettuale è ogni persona che decida di "aprire" la propria ragione alla complessità della realtà; la civiltà non ha parte e cresce soltanto nella incarnazione dei valori, dunque nella loro contaminazione nelle contraddizioni della vita per fecondarli e per ri-crearli, e nella consapevolezza che siamo dentro a cambiamenti che richiedono un cambio di passo POLITICO.
Nessun problema è più nazionale e gli Stati, nella interrelazione globalizzata, mostrano limiti ormai evidenti. Il dramma degli intellettuali è nella mancanza di condivisione di una nuova responsabilità storica che apra nuove prospettive strategiche; è venuto il tempo di riscoprire una cooperazione globale che superi gli inganni di una competizione esasperata, guerra permanente, che ci sta portando alla degenerazione.
lunedì 29 febbraio 2016
La cultura del giudizio storico è cultura del dubbio (Marco Emanuele)
La cultura del giudizio storico è cultura del dubbio; infatti, giudica unicamente chi ricerca nella conoscenza. Quest'ultima è un percorso "in progress" e mai può dirsi esaurito; la conoscenza è innovazione perché problematizza ciò che conosciamo, de-dogmatizza le certezze; è nella conoscenza che possiamo riscoprirci, vivendo, progettanti perché incerti.
Il bello della conoscenza è nella sua "non imminenza"; solo i "pre-giudicanti" possono pensare che essere informati (soprattutto oggi, dove facciamo fatica, per sovrabbondanza, a distinguere le informazioni "utili") significhi conoscere. E' venuto il tempo di recuperare il nostro essere "trascendenti" nella conoscenza, a sua volta trascendente perché guarda oltre ciò che si vede, oltre la superficialità, accogliendo e affrontando il rischio della profondità dei processi storici vitali, prima di tutto dei nostri interiori.
E' il dubbio che ci permette di conoscere, al di là dell' "eterno presente". Se tutto fosse conosciuto, infatti, non avrebbe senso la nostra presenza sulla Terra e non avrebbero senso le infinite differenze che compongono il mosaico dell'umanità nel creato.
Oggi esistiamo in un evidente corto-circuito; è come se ci fossimo convinti che la "realtà secondo pochi" è la realtà in quanto tale per tutti, se pensassimo - come alcuni continuano a fare - che c'è un centro della storia da cui tutto promana e non, invece, una infinità polarità che ci vincola a una responsabilità nella complessità.
Il bello della conoscenza è nella sua "non imminenza"; solo i "pre-giudicanti" possono pensare che essere informati (soprattutto oggi, dove facciamo fatica, per sovrabbondanza, a distinguere le informazioni "utili") significhi conoscere. E' venuto il tempo di recuperare il nostro essere "trascendenti" nella conoscenza, a sua volta trascendente perché guarda oltre ciò che si vede, oltre la superficialità, accogliendo e affrontando il rischio della profondità dei processi storici vitali, prima di tutto dei nostri interiori.
E' il dubbio che ci permette di conoscere, al di là dell' "eterno presente". Se tutto fosse conosciuto, infatti, non avrebbe senso la nostra presenza sulla Terra e non avrebbero senso le infinite differenze che compongono il mosaico dell'umanità nel creato.
Oggi esistiamo in un evidente corto-circuito; è come se ci fossimo convinti che la "realtà secondo pochi" è la realtà in quanto tale per tutti, se pensassimo - come alcuni continuano a fare - che c'è un centro della storia da cui tutto promana e non, invece, una infinità polarità che ci vincola a una responsabilità nella complessità.
Non cultura del non progetto (Marco Emanuele)
Avvolti nella "non cultura del non progetto", siamo individui naviganti senza direzione nel grande mare della competizione. Ci sfugge l'idea di civiltà mentre abbiamo ben presente, e pratichiamo, l'idea di civilizzazione; impostiamo "modelli" irreali, nel senso che sono immaginati al di là dei processi storici vitali (fondati sul pre-giudizio e pregiudicanti la "giusta" evoluzione delle realtà umane), applicati in maniera indiscriminata, esportati come "verità rivelate" e, come tali, non discutibili e non problematizzabili.
Alla prova della realtà, i nostri pre-giudizi si rivelano molto spesso inesistenti ma, altrettanto spesso, si rivelano assai duri a morire; se fossimo consapevoli di avere il talento del giudizio storico saremmo sulla strada del superamento dell'idea totalitaria che, a ben guardare, gode di ottima salute. Oggi, infatti, siamo individui "a-realistici" e paralleli alla realtà, impauriti dal rischio di discutere le nostre certezze; siamo, sostanzialmente, "non persone". Mi soffermo un istante su questa definizione; "non persone" sono sia coloro, una grande parte dell'umanità, che non arrivano a vivere il senso di umanità (per ragioni materiali e non) sia coloro (tra i quali noi) che, pur appartenendo alla parte di mondo cosiddetto "sviluppato", sono - spesso inconsapevolmente - carnefici e vittime dell'ansia da omologazione, vittime del loro stesso (e presunto) "bene assoluto".
La "non cultura del non progetto" è la negazione della profondità dei processi storici vitali, è la vittoria della superficialità che ci rende irresponsabili, non facendoci vivere la complessità naturale di ciò che siamo e della verità dinamica della realtà umana nel creato.
Alla prova della realtà, i nostri pre-giudizi si rivelano molto spesso inesistenti ma, altrettanto spesso, si rivelano assai duri a morire; se fossimo consapevoli di avere il talento del giudizio storico saremmo sulla strada del superamento dell'idea totalitaria che, a ben guardare, gode di ottima salute. Oggi, infatti, siamo individui "a-realistici" e paralleli alla realtà, impauriti dal rischio di discutere le nostre certezze; siamo, sostanzialmente, "non persone". Mi soffermo un istante su questa definizione; "non persone" sono sia coloro, una grande parte dell'umanità, che non arrivano a vivere il senso di umanità (per ragioni materiali e non) sia coloro (tra i quali noi) che, pur appartenendo alla parte di mondo cosiddetto "sviluppato", sono - spesso inconsapevolmente - carnefici e vittime dell'ansia da omologazione, vittime del loro stesso (e presunto) "bene assoluto".
La "non cultura del non progetto" è la negazione della profondità dei processi storici vitali, è la vittoria della superficialità che ci rende irresponsabili, non facendoci vivere la complessità naturale di ciò che siamo e della verità dinamica della realtà umana nel creato.
L'abitudine globalizzata al "pre-giudizio" (Marco Emanuele)
L'abitudine globalizzata al "pre-giudizio" è la cifra di questo terzo millennio della competizione e dell'imminenza. Ci illudiamo di poter vivere senza conoscere, senza avere l'occhio antropologico, filosofico, politico, complesso sulle realtà che evolvono; volentieri semplifichiamo e separiamo, prigionieri nell'illusione delle nostre certezze.
Il mondo nel quale ci limitiamo ad esistere è "non governato" da una "politica dimenticata" che continua a volerci far credere nella inevitabilità della "guerra permanente"; come dire, non è importante conoscere ma è fondamentale assolutizzare le nostre impressioni, i nostri punti di vista, elevando a verità dogmatiche quelle che sono soltanto opinioni.
La conseguenza dell'abitudine globalizzata al "pre-giudizio" è che assistiamo a continue "reazioni internazionali" e che, dopo il crollo dei punti di riferimento novecenteschi, non riusciamo a immaginare visioni di società nella "liquidità" dell'eterno presente; tanto vale, allora, rassegnarci a seguire la corrente, costruirci dei nemici, inventare scontri fra civiltà, negare "nei fatti" il diritto alla vita per ogni differenza che contribuire a formare il meraviglioso mosaico dinamico dell'umanità nel creato.
Chi scrive, evidentemente, pensa che il "pre-giudizio" vada superato, che ci voglia una "cultura della conoscenza" che ci aiuti a ritrovare la libertà e la responsabilità nei processi vitali che, volenti o nolenti, sfuggono alle nostre abitudini "omologanti" e "performanti".
Il mondo nel quale ci limitiamo ad esistere è "non governato" da una "politica dimenticata" che continua a volerci far credere nella inevitabilità della "guerra permanente"; come dire, non è importante conoscere ma è fondamentale assolutizzare le nostre impressioni, i nostri punti di vista, elevando a verità dogmatiche quelle che sono soltanto opinioni.
La conseguenza dell'abitudine globalizzata al "pre-giudizio" è che assistiamo a continue "reazioni internazionali" e che, dopo il crollo dei punti di riferimento novecenteschi, non riusciamo a immaginare visioni di società nella "liquidità" dell'eterno presente; tanto vale, allora, rassegnarci a seguire la corrente, costruirci dei nemici, inventare scontri fra civiltà, negare "nei fatti" il diritto alla vita per ogni differenza che contribuire a formare il meraviglioso mosaico dinamico dell'umanità nel creato.
Chi scrive, evidentemente, pensa che il "pre-giudizio" vada superato, che ci voglia una "cultura della conoscenza" che ci aiuti a ritrovare la libertà e la responsabilità nei processi vitali che, volenti o nolenti, sfuggono alle nostre abitudini "omologanti" e "performanti".
domenica 28 febbraio 2016
Il "giudizio" che ci portiamo dentro (Marco Emanuele)
Nella nebbiosa e profonda provincia piemontese, più di trent'anni fa, una nonna già vecchia parlava a un giovane adolescente, dicendogli: "usa il giudizio", "fai le cose con giudizio". In quella campagna triste e un pò ipocrita, la vecchia nonna trasmetteva una sorta di "verità popolare" e l'adolescente la guardava smarrito, annoiato, scocciato. Quell'adolescente ero io.
Con il passare degli anni, ho ripensato a quelle parole sul "giudizio" e l'ho interpretato come cura e senso del limite. La vecchia nonna aveva capito tutto; se abbiamo cura di non crederci onnipotenti, di non pensarci come il "bene assoluto" (una sorta di dio che nega quello vero, posto che esista) che sconfigge il male, di essere "naturalmente" incerti, il nostro comportamento non può che essere "relativo", cioè aperto all'altro, cooperativo, libero.
Mia nonna non aveva studiato filosofia ma vi possono essere anche dei "filosofi inconsapevoli".
Ci portiamo dentro il "talento del giudizio" ma, come la realtà dimostra, troppo spesso lo soffochiamo nell'altrettanto umano "pre-giudizio". Ho in mente il titolo di un giornale di qualche mese fa, "Bastardi islamici"; ci dispiace che quel giornalista non abbia avuto una nonna come la mia o, se l'ha avuta, che l'abbia "venduta" al miglior offerente. In sostanza, nell'era della competizione e del successo imminente, il "pre-giudizio" paga.
Con il passare degli anni, ho ripensato a quelle parole sul "giudizio" e l'ho interpretato come cura e senso del limite. La vecchia nonna aveva capito tutto; se abbiamo cura di non crederci onnipotenti, di non pensarci come il "bene assoluto" (una sorta di dio che nega quello vero, posto che esista) che sconfigge il male, di essere "naturalmente" incerti, il nostro comportamento non può che essere "relativo", cioè aperto all'altro, cooperativo, libero.
Mia nonna non aveva studiato filosofia ma vi possono essere anche dei "filosofi inconsapevoli".
Ci portiamo dentro il "talento del giudizio" ma, come la realtà dimostra, troppo spesso lo soffochiamo nell'altrettanto umano "pre-giudizio". Ho in mente il titolo di un giornale di qualche mese fa, "Bastardi islamici"; ci dispiace che quel giornalista non abbia avuto una nonna come la mia o, se l'ha avuta, che l'abbia "venduta" al miglior offerente. In sostanza, nell'era della competizione e del successo imminente, il "pre-giudizio" paga.
Il pre-giudizio è la prima forma di corruzione (Marco Emanuele)
Il pre-giudizio è la prima forma di corruzione. Non ce ne rendiamo conto immediatamente ma, pre-giudicando, svuotiamo di senso l'oggetto o il soggetto del nostro pre-giudicare e, allo stesso tempo, corrompiamo noi che pre-giudichiamo perché non conosciamo e corrompiamo la realtà che ci riguarda e che ci circonda, privandola di quella globalità che dovrebbe essere la "ragione prima" della nostra conoscenza.
Nell'atto del pre-giudicare, allora, avviamo quello che potremmo definire un "circolo vizioso di inciviltà", facendo arretrare la civiltà e imponendo una "civilizzazione" che altro non è se non l'assolutizzazione di un qualche "punto di vista"; ben si comprende che, in questo, vi è il fondamento del dominio, della modellizzazione globalizzata che "prescinde" dalle complessità dei mondi-della-vita che, in ragione del nostro pre-giudizio, semplicemente non esistono o che, se esistono, non hanno valore in quanto le consideriamo degli errori da correggere (in questo caso, intendendo la parola errore nel significato di peccato o di reato).
Pertanto, dovremmo riflettere meglio ogni qual volta parliamo con certezza di temi o di persone che non conosciamo. E la soluzione è una sola; ritornare a studiare. Che è, poi, il ritornare a vivere.
Nell'atto del pre-giudicare, allora, avviamo quello che potremmo definire un "circolo vizioso di inciviltà", facendo arretrare la civiltà e imponendo una "civilizzazione" che altro non è se non l'assolutizzazione di un qualche "punto di vista"; ben si comprende che, in questo, vi è il fondamento del dominio, della modellizzazione globalizzata che "prescinde" dalle complessità dei mondi-della-vita che, in ragione del nostro pre-giudizio, semplicemente non esistono o che, se esistono, non hanno valore in quanto le consideriamo degli errori da correggere (in questo caso, intendendo la parola errore nel significato di peccato o di reato).
Pertanto, dovremmo riflettere meglio ogni qual volta parliamo con certezza di temi o di persone che non conosciamo. E la soluzione è una sola; ritornare a studiare. Che è, poi, il ritornare a vivere.
Sfruttare pedagogicamente i difetti di Internet (Umberto Eco)
(...) ritengo che esista un modo molto efficace di sfruttare pedagogicamente i difetti di Internet. Si dia come esercizio in classe, ricerca a casa o tesina universitaria, il seguente tema: "Trovare sull'argomento X una serie di trattazioni inattendibili a disposizione su Internet, e spiegare perché sono inattendibili". Ecco una ricerca che richiede capacità critica e abilità nel confrontare fonti diverse - e che eserciterebbe gli studenti nell'arte della discriminazione" (Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe)
Pre-giudichiamo (Marco Emanuele)
Pre-giudichiamo chi e ciò che non conosciamo. Il pre-giudizio è sia il nostro atteggiamento "non conoscente" che l'effetto prodotto da tale atteggiamento e che pregiudica la verità del reale, di ciò che incontriamo. Possiamo dire che, attraverso il pre-giudizio, ci poniano in maniera errata nei confronti della realtà e facciamo degenerare la realtà stessa.
Il pre-giudizio è la prima forma di corruzione, è superficiale e semplificante. Molto spesso il pre-giudizio nasce dalla paura che abbiamo di conoscere perché conoscere è sempre un "rischio", è la problematizzazione delle nostre certezze.
Se guardiamo alla realtà, il pre-giudizio è molto diffuso e duro a morire; oggi il pre-giudizio si fa informazione, ci inonda e ci condiziona. Troppo spesso non riflettiamo sui danni prodotti dal pre-giudizio e, anzi, insistiamo nel proporlo come chiave di lettura della realtà e, molto spesso, come soluzione ai problemi complessi.
Per tentare di vincere il pre-giudizio ci vuole un pensiero auto-critico, critico, libero, complesso. Nulla è come appare e, dal livello intra-personale e quello globale, il pre-giudizio va sconfitto uscendo dal circolo vizioso di una competizione che ci rende sempre più "primitivi" e "disumani".
Il pre-giudizio è la prima forma di corruzione, è superficiale e semplificante. Molto spesso il pre-giudizio nasce dalla paura che abbiamo di conoscere perché conoscere è sempre un "rischio", è la problematizzazione delle nostre certezze.
Se guardiamo alla realtà, il pre-giudizio è molto diffuso e duro a morire; oggi il pre-giudizio si fa informazione, ci inonda e ci condiziona. Troppo spesso non riflettiamo sui danni prodotti dal pre-giudizio e, anzi, insistiamo nel proporlo come chiave di lettura della realtà e, molto spesso, come soluzione ai problemi complessi.
Per tentare di vincere il pre-giudizio ci vuole un pensiero auto-critico, critico, libero, complesso. Nulla è come appare e, dal livello intra-personale e quello globale, il pre-giudizio va sconfitto uscendo dal circolo vizioso di una competizione che ci rende sempre più "primitivi" e "disumani".
Tecnica della selezione delle notizie in linea (Umberto Eco)
(...) da tempo sostengo che la nuova fondamentale materia da insegnare a scuola dovrebbe essere una tecnica della selezione delle notizie in linea - salvo che si tratta di un'arte difficile da insegnare perché spesso gli insegnanti sono tanto indifesi quanto i loro studenti. (Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe)
Disordine mentale (Umberto Eco)
Se i ragazzi non imparano questo, che la cultura non è accumulo, ma discriminazione, non c'è educazione, bensì disordine mentale (Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe)
Riscoprirci umani, conoscendo (Marco Emanuele)
Avere "giudizio storico" è una responsabilità, non una scelta. Si tratta di mettere il naso fuori dalle nostre certezze e di riscoprire l'incertezza di ciò che siamo. Fra i tanti, c'è uno scontro in atto nella realtà che mi colpisce molto: è quello fra la dinamicità della realtà (e delle realtà che evolvono) e la "certezza" delle nostre convinzioni consolidate. Convinzioni che ci portano soltanto ad alzare muri, a dividerci dalla realtà, contribuendo a far degenerare ulteriormente una convivenza umana pericolosamente percorsa da un disumano trionfante.
Il primo passo verso la civiltà, per noi "progrediti primitivi", è di recuperare la responsabilità del "giudizio storico" che, a ben guardare, è l'antidoto naturale al pre-giudizio, giudizio senza conoscenza.
Maestri di superficialità, manchiamo di profondità. Abbiamo paura di percorrere l'oltre che già ci percorre ma, allo stesso tempo, l'oltre è il luogo della nostra umanità. La sfida del "giudizio storico" è tutta qui: nel riscoprici umani, conoscendo.
Il primo passo verso la civiltà, per noi "progrediti primitivi", è di recuperare la responsabilità del "giudizio storico" che, a ben guardare, è l'antidoto naturale al pre-giudizio, giudizio senza conoscenza.
Maestri di superficialità, manchiamo di profondità. Abbiamo paura di percorrere l'oltre che già ci percorre ma, allo stesso tempo, l'oltre è il luogo della nostra umanità. La sfida del "giudizio storico" è tutta qui: nel riscoprici umani, conoscendo.
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